Una notte

di
genere
confessioni

Sono stanco del caos sterile che dilaga in questi giorni; tutti corrono come spinti da una forza centrifuga che li scaraventa nelle strade e nei negozi. Qui starò bene, tra queste spesse mura di pietra potrò ritirami dal mondo, senza il timore che qualcuno mi venga a cercare.
Da anni vagheggiavo l’idea di trascorrere una notte di San Silvestro così, anni in cui ho ceduto alle richieste altrui.
Da ragazzo per far parte di un gruppo, amalgamarsi, per adeguarmi a desideri non miei e non essere lasciato indietro.
Da adulto poi, qualche concessione alla famiglia, ad amici di amici, insomma: chiacchiere banali e decibel troppo alti.
Ben presto però, ho capito che la mia personalità non spicca ma si distacca e non è fatta per confondersi con gli altri. È come quello scalatore in montagna che non noti per la velocità ma per la resistenza e la regolarità del passo.
Oggi la svolta, ho reciso i fili, confessando al mondo che non amo festeggiare l’ultimo giorno dell’anno, che lo considero importante tanto quanto gli altri.
La casa è fredda, la temperatura esterna è precipitata. Appena varcata la soglia sono stato accolto da una zaffata di chiuso che si è subito attaccata ai vestiti. Le mura sono umide di salsedine. Accendo il camino senza togliere il cappotto e, mentre la legna comincia a bruciare, mi siedo sul divano fissando il fuoco. I colori delle fiamme hanno il potere di cancellare ciò che mi circonda, conducendo lontano la mia mente.
Appoggiato sopra un mobile zeppo, il piatto di un vecchio giradischi mi osserva. Quando le gambe sembrano aver riacquistato la facoltà di muoversi, mi alzo e prendo alcuni vinili che appartenevano a mio padre: ce n’è uno di Paolo Conte.
Qualche secondo nel quale la polvere scricchiola tra i solchi e la voce roca del blues astigiano irrompe attraverso le casse. Accendo una candela profumata che probabilmente mia sorella ha portato quest’estate, lentamente asciuga residui di umidità.
Mi tolgo il cappotto e l’appendo sull’attaccapanni all’ingresso. Vado in cucina dove ho lasciato la cena composta da affettati, formaggi e vino rosso: stasera me ne frego del colesterolo. Comincio a tagliare la pagnotta di grano duro che ho comprato fresca e preparo il vassoio che mangerò davanti al camino, leggendo Tesson.
Il suo, Nelle foreste siberiane, è un inno alla solitudine. L’ho già letto ma ora lo riassaporo, pagina dopo pagina cerco segnali e insegnamenti per sopravvivere nella jungla che c’è là fuori, isolandomi almeno per oggi e domani, alla ricerca di pensieri nascosti dentro di me, di ricordi soffocati dalla polvere. Come quello di Monica, che mi rapì completamente il cuore in un viaggio nel nord Europa, che baciai per la prima volta sotto l’orologio della piazza di Praga, mentre una sottile pioggerella inumidiva i nostri abiti estivi.
Laprima notte di sesso fu in un ottobre estivo, a Palermo, nella stanza di una stantia pensione vicino alla stazione.
Ricordo ancora la luce maliziosa dei suoi occhi scuri, mentre con le labbra saggiava la mia consistenza.
Questo Montepulciano è veramente gustoso, morbido e dal colore decisamente intenso, la crosta croccante di questa ciabatta si lega alla perfezione con la corallina tagliata spessa, che riempie la bocca con la sua salacità, mentre la cremosa acidità del gorgonzola aiuta a completare l’epifania di sapori. Chiudo gli occhi solo un istante, tendendo l’orecchio; niente, solo la musica del giradischi. Non un latrato, non un botto, non il motore di un’auto, niente.
La storia siciliana finì male, distanza e depressione consumarono la nostra passione troppo velocemente, lasciandomi con il fiammifero annerito sulle dita. Rimase un fastidioso senso d’irrisolto, col quale imparai a vivere prima, e a dimenticare, poi.
M’innamorai di nuovo, alcuni anni più tardi: una maestra ligure che viveva là dove l’Aurelia diventa Francia. Un rapporto intenso, l’unico modo nel quale riesco a vivere i sentimenti, a dispetto di una freddezza umana che mi riconosco. Faceva l’amore con trasporto, lasciandosi guidare. Anche qui la distanza si fece sempre più evidente e dopo aver vissuto il crepuscolo struggente e vivido di un’ultima settimana insieme, non ci vedemmo mai più.
Cos’è l’amore per me? Mi sono posto questa domanda molte volte, trovando risposte sempre diverse a seconda dell’età e dell’esperienza.
La siciliana una volta disse che ero innamorato dell’Idea dell’amore: ero letterario, probabilmente aveva ragione.
O forse con lei ho scoperto che l’amore deve potersi specchiare in qualcuno e, quando non lo fa, diventa autoreferenziale.
Dopo gli ho dato un’interpretazione più carnale, più legata alla lussuria che al sentimento. E così sono passato attraverso: Sonia, Carla, Valentina, Fabiana e altre donne, appena morse.
Infine, ho trovato quella che pensavo potesse rappresentare la fine del viaggio, e in effetti la sosta è stata lunga: otto anni.
Tutti vissuti con difficoltà, sgomitando continuamente, rinunciando a impegnarmi realmente se non nell’esercizio della pratica quotidiana. Tralasciando tutto il resto o almeno buona parte del resto, fottendo completamente il rapporto.
Quando ho ricominciato a mettermi in cammino, senza più pesi, ho iniziato a capire. All’improvviso tutto mi sembrava chiaro: non ero tagliato per i rapporti longevi,sono un semplice compagno di viaggio, uno al quale ci si lega solo per un tratto di strada.
L’amore è una coperta calda, soffice, che teniamo sempre nel nostro zaino,poggiandola di volta in volta sulle spalle di chi è meritevole di portarla; ma è pur sempre la stessa coperta, che col tempo si assottiglia, s’infeltrisce, si macchia, invecchia.
Chiunque l’indosserà sentirà sempre meno calore.
Non so se questa sia la versione giusta, so, però, che questa è la versione di oggi, a cui sono arrivato con sofferenza e vita. Che non sono disposto a tirare fuori troppe volte questa coperta dallo zaino e che ho sempre meno voglia di percorrere strade insieme a qualcuno se non alle mie condizioni. So anche, però, che qualunque sia il tratto di strada che farò in compagnia, darò tutto me stesso, senza risparmiarmi.
Il disco di Conte è finito, il braccio si è staccato dal piatto ed è tornato in posizione.
Sorseggio il vino mentre continuo ad osservare il fuoco, mi passo una mano sul volto avvampato dal calore e sento la barba di tre giorni graffiarmi le dita. Mi piacerebbe non tornare più indietro,sono stanco della città, di tutta quell’inciviltà che soffoca il cuore delle persone. Domani mattina prendo la bici e arrivo fino al mare, saranno un paio di chilometri. In questa stagione camminare sulla spiaggia e fissare l’orizzonte ha un sapore di esclusività, è diverso dall’estate quando tutti sembrano avere il dovere di prendere possesso delle spiagge. In inverno mi godo il diritto di farlo, di sentire la sabbia bagnata dall’alta marea sotto i piedi, i gabbiani che volteggiano su di me, le barche ormeggiate, la risacca che s’infrange contro gli scogli.
Sento qualche botto in lontananza, che ore sono? Le 23.45.
Manca poco ormai, anche qui vorranno salutare il nuovo anno mandando a fuoco qualcosa o rischiando di farsi saltare un dito. Che stupide usanze, non pagherei un euro per quegli idioti che rimangono invalidi, chiamatemi bastardo cinico ma la vedo così e me ne fotto dei giudizi altrui.
Vado a prendere il prosecco, lo preferisco allo spumante, sempre se di qualità. Ancora qualche minuto e questo vecchio anno sarà alle spalle; salutiamo sempre con entusiasmo l’anno che ci scivola via tra le mani, ignorando che il tempo a nostra disposizione si assottiglia.
La considerazione che abbiamo del tempo è falsata dalla difficoltà nel vivere certi momenti. Il tempo è il bene più prezioso che possediamo, non è acquistabile, su nessuna piattaforma online, né con la carta di credito. Ne abbiamo solo una quantità che non conosciamo in anticipo; utilizzarlo nel miglior modo possibile dovrebbe essere un dovere.
Ho perso l’attimo mentre riflettevo, la mezzanotte è sfuggita. Sono in piedi nel salotto con la bottiglia in mano, intorno qualche fuoco comincia a manifestarsi, fortunatamente sono abbastanza isolato e mi arrivano solo riverberi. Stappo il prosecco e lo verso nel calice dove prima ho bevuto il Montepulciano, i puristi diranno che non si fa, ma a me non interessa, non ho voglia di lavarlo.
Taglio una fetta di panettone e mi siedo di nuovo davanti al fuoco, mi tornano in mente altri capodanni, in compagnia eppure solo.
Metto del jazz melodico, riprendo il libro che stavo leggendo e mentre Tesson mi parla di taighe siberiane, a me viene in mente Marcovaldo; ho sempre amato Calvino ed il suo personaggio e mi chiedo: quando le città hanno cominciato a diventare delle gabbie per animali solitari, ad alienare chi ci vive?
Una volta, il vicino di casa era quello dal quale andare a chiedere un bicchiere di latte o dello zucchero, mentre oggi è quello da evitare anche in ascensore, perché c’imbarazzano i silenzi, non abbiamo più nulla da dirci.
Il campanello suona. Guardo fuori dalla finestra, ma non vedo nulla. Così accendo la luce esterna, prendo il cappotto ed esco, poi apro il cancello.
“Mi scusi se la disturbo ma credo di essermi persa.”
Una donna sui quaranta, non molto alta infilata in un soprabito che continua a stringere nel freddo, sta fumando una sigaretta e ha un cellulare in mano.
“Dipende da dove sta andando” le rispondo rimanendo all’interno della proprietà senza accennare a farla entrare.
“Andavo a (…) ma non riesco ad orientarmi” mi dice mostrandomi il
cellulare spento.
“È dalla parte opposta, si è decisamente persa” le dico in tono asciutto ma comprensivo.
“Ho il cellulare scarico, non è che potrei usare il suo telefono per avvertire gli amici?”
“Mi spiace, non ho telefono fisso e neppure il cellulare” la guardo sconsolato.
“Cazzo! Ma come è possibile?” sibila spazientita.
“Non credevo di averne bisogno per questi due giorni”
“Adesso come faccio, non so come rintracciare i miei amici, non mipuò indicare la strada?” mi chiede accoratamente, mentre il freddo comincia a farsi pungente.
“Ascolti, non è semplice da qui riprendere la strada, rischierebbe di perdersi ancora. Le propongo di entrare, mettere sotto carica il cellulare e magari tra un’ora con l’aiuto del navigatore sarà più semplice” pronuncio queste parole quasi senza ascoltarmi, non avevo previsto di condividere parte del tempo del nuovo anno con un’estranea, ma non so proprio come aiutarla.
Lei mi fissa e poi aggiunge: “mi spiace, non entro in casa di uno sconosciuto, preferisco arrangiarmi da sola”. Rimane per un momento sul cancello, come se per magía potessi far comparire un cellulare dalla tasca del cappotto.
“La capisco, beh, buona fortuna. Comunque torni indietro ed alla rotonda prenda la terza uscita, più avanti dovrebbe trovare dei cartelli stradali.”
“Grazie e…buon anno” mi dice mentre si avvia alla macchina posteggiata qualche metro più avanti.
“Buon anno anche a lei” le dico mentre la osservo fare manovra e seguire le mie indicazioni, poi rientro.
È l’una passata, chissà se quella donna saprà ritrovare la strada giusta.
Quanto siamo diventati vulnerabili senza un cellulare in tasca, come abbiamo fatto per tanti anni a ritrovare un percorso smarrito senza Google Maps? Usando il buon senso, guardando i cartelli stradali, chiedendo informazioni ai passanti. Chissà quanti messaggi troverò sul mio quando lo riaccenderò e quante telefonate perse. Immagino quei pochi amici che penseranno che non abbia campo, “sarà in una grotta, quell’orso” staranno dicendo, invece sono al mare.
Scorro i dorsi dei volumi che con gli anni si sono accumulati su questa vecchia e appesantita libreria. Molti erano di mio padre, altri di mia sorella, altri ancora i miei, quelli che portavo in estate e che spesso non tornavano con me in città.
Quante storie ho consumato seduto in giardino o sdraiato nel mio letto in mansarda, dove quando ero adolescente volevo portare le ragazze e mostrare loro il mio cannocchiale. Oggi si equivocherebbe. All’epoca dei fatti, vostro onore, usavo quel vecchio pezzo d’antiquariato per guardare le stelle, quelle visibili anche ad occhio nudo.
C’è stato un momento in cui volevo fare l’astronomo, poi il pilota d’aerei, poi il militare, poi il giornalista e poi, e poi…sono diventato altro, lontano da ogni fantasia e sogno. Siamo sacchi vuoti senza sogni; il fanciullino del Pascoli credo di averlo ucciso molti anni fa e deve essere stato un delitto perfetto, perché ne ho occultato il cadavere senza che nessuno lo venisse a cercare.
Ho smesso di sognare troppo presto nella mia vita e non so perché, mi sarei meritato di farlo ancora per qualche anno.
Sono le due passate, credo che me ne andrò a dormire. Sono stanco, lascio tutto così, sperando non ci siano topi in questa casa. Spengo il camino e salgo di sopra.
Quante carezze ho dato nella mia vita di cui mi ricordo? Quanti baci ho elargito con passione? Quanti sguardi ho sparpagliato intorno a me?
La vita non si può ridurre ad un mero calcolo matematico: quanto di quello o quanto di questo. Ci sono sensazioni, immagini, emozioni, fotografie. Avete mai provato a guardare una foto cercando di rammentare esattamente cosa provavate quando ve l’hanno scattata? Il dove e il quando sono evidenti, ma le sensazioni che stavate vivendo, quelle solo voi potete cercare di ricordarle. E quante cose vanno perse nella memoria!
Anni dopo un accadimento, parlando con un amico, mi rammentò di un sms ricevuto di cui avevo cancellato il ricordo. In quel momento, quell’informazione mi aiutò a riagganciare un vagone all’altro, ricostituendo l’intero convoglio, diretto nella stazione dell’oblio.
Mi sveglio avvoltolato nelle coperte di un letto rimasto troppo freddo tutta la notte, con un’idea fissa nella testa.
La freddezza del bagno è mitigata dal sole che brucia sulla finestra ad est.
Sono nudo, sto guardandomi allo specchio, le occhiaie sembrano borse troppo pesanti da portare, la barba ispida e bianca buca la pelle morbida, i capelli…ecco cosa avevo in testa da ieri notte, voglio rasarmi il cranio. Prendo la macchinetta che mio padre teneva sempre nell’armadietto, lui la usava per regolarsi la barba, non è proprio quella adatta ma credo farà il suo lavoro.
Mentre percorro la superficie della mia testa penso ad un nuovo inizio: un cambiamento fisico è come recidere i rami secchi che impediscono all’albero di crescere e svilupparsi.
Finito con la testa, mi rado. La sensazione di fresco che mi avvolge mentre la lametta carezza il viso mi mette di buon umore, rivitalizzo la pelle con l’emoliente al timo.
Indosso una tuta, voglio stare comodo, leggero.
Mi torna spesso in mente la frase di Calvino ne Le lezioni americane:
“Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore”.
Io amo la leggerezza dell’animo, dei vestiti, delle scarpe che scelgo daanni in base al peso, voglio muovere i piedi come fossero sgombri. Prendo la bici e vado verso il mare.
Il castello in riva alla spiaggia mi porta indietro con la memoria, quando raggiunsi una donna in una città sconosciuta, affidandomi completamente a lei.
Mi condusse in giro, indicandomi le zone più belle e suggestive, mentre ci
avvolgevamo di parole. Un’intervista intima, che mi consentì di calpestare con discrezione un pezzo del suo giardino.
Una donna delicata ma decisa, irrequieta ma consapevole, fascino e malizia nascoste in un corpo femminile ma non voluttuoso; nella dolcezza del viso nascondeva il fuoco della brace che arde sotto la cenere, un’esperienza umana intensa.
La corrente di risacca bagna la spiaggia per metri, sulle dune pochi ciuffi d’erba trattengono il Maestrale. So già che alla fine della passeggiata le scarpe saranno piene di sabbia ma non ho voglia di toglierle, m’incammino verso sud, lasciando che il vento mi spinga alle spalle.
Ricordo una conversazione con Steno, nella quale parlavamo di “perversione”: lui sottilmente moralista, io trasformato da conservatore illuminato a progressista. Nel sesso ho imparato tanto dopo i trent’anni e ho cambiato modo di vedere le cose. Ho capito che il mondo non è solo bianco o nero con sfumature di grigio, sa essere anche colorato; da quando me lo fece notare la mia terapeuta non l’ho più dimenticato. Allora è perversione oamore quello che spinge David Kepesh a inginocchiarsi e leccare il sangue del mestruo che cola sulle cosce di Consuela Castillo ne L’animale morente di Philip Roth?
È perversione o seduzione la sensazione che provai quando una donna dagli occhi magnetici e turchesi mi comparve davanti col la testa rasata, forse a causa di una malattia ed una fierezza degna di una leonessa?
Avrei voluto abbracciarla e baciarla, perché era unica e bellissima nella sua autenticità.
Non c’è perversione se c’è consapevolezza e rispetto; il sesso è come un circolo esclusivo nel quale si entra se ci accettano delle regole e quelle regole valgono per tutti i giocatori, se non le accetti non puoi giocare.
Mi seggo su una duna più alta delle altre, fisso l’orizzonte ed il mare aperto, la linea azzurra del cielo si fonde con quella dell’acqua, baciandola. Chiudo gli occhi e annuso la salsedine.
Ho deciso cosa devo fare, finalmente dopo anni ho tutto chiaro nella mia testa, è incredibile come certe decisioni complesse all’improvviso appaiano semplici, quasi banali e ti chiedi come sia mai possibile non esserci arrivati prima, quale fosse l’ostacolo che c’impediva di vedere la soluzione. Mi alzo e con una serenità che non avvertivo da tempo. Con passo dinoccolato ritorno alla bici, la inforco verso casa.
Davanti al cancello c’è un’auto, la stessa di questa notte. Dentro una donna, la stessa di questa notte; quando mi vede smette di parlare al cellulare e scende.
“Buongiorno e buon anno!” mi dice sorridente.
Rispondo al saluto, poi chiedo:
“Come mai qui?”
“Non ci crederà ma le sue indicazioni mi sono state molto utili, sono riuscita a trovare la strada e tornando verso casa ho deciso di ripassare da qui per ringraziarla”.
Adesso che posso vederla bene, mi colpiscono gli occhi scuri ed i capelli corti che le coprono appena il collo, indossa un cappello di lana per ripararsi dal vento fastidioso e incessante.
“Sono contento di averla aiutata, l’ho pensata stanotte, mi chiedevo se fosse riuscita a trovare i suoi amici” le dico mentre smonto dalla sella e mi avvio verso il cancello, lei mi segue.
“Così si preoccupava per me?” mi chiede tra l’incredulo e il compiacente.
“Sì, beh, era molto buio e da qui non era semplice riprendere la strada giusta, ma vedo che ci è riuscita e tutto è andato per il meglio” rimango sospeso accanto al cancello con lei che mi fissa, come in
un minuetto sembriamo due figurine in attesa del prossimo passo, così decido che si può ricominciare anche così.
“Vuole un caffè?”
Lei mi guarda, guarda l’auto, manda un messaggio e poi sorridendo mi dice: “Perché no?”
Entriamo in casa.

“Mi chiamo Tommaso” dice facendomi strada in un andito piuttosto grande, tipico delle case vecchie. In realtà non so nemmeno perché sono qui. Mi chiedo cosa mi abbia spinto, dopo stanotte, a ritornare da quest’uomo con la banale scusa di volerlo ringraziare.
“Liliana” gli dico appena raggiungiamo il salotto.
“Si accomodi, vado a preparare il caffè” dice uscendo dalla stanza.
Mi siedo sul divano, davanti al camino, nel quale ardono ciocchi di legna secca.
I mobili che mi circondano sono di qualità, ma risalgono a molti anni fa, i muri sembrano bisognosi di una carteggiata, l’umidità sta mangiando l’intonaco.
Un’intera parete è occupata da libri, c’è un vecchio giradischi ed un mucchio di vinili.
La luce entra da est, illuminando la stanza attraverso le tre finestre, una delle quali è una porta, che si affacciano sul giardino dal quale siamo entrati.
Tommaso torna col vassoio poggiandolo sul tavolino davanti a me.
“Amaro o zuccherato?” chiede prendendo la zuccheriera.
“Solo un cucchiaino, grazie”.
Mi porge la tazzina e prendendo la sua si siede accanto a me.
“Mi deve scusare se non sono molto loquace, ma non sono abituato ad avere ospiti. Sono venuto dalla città per stare solo”.
“Mi spiace averla disturbata” dico guardandolo.
“Non dica così, l’ho invitata io ad entrare. È stata una notte solitaria e riflessiva, ma credo di aver trovato delle risposte alle mie inquietudini” dice fissando fuori della finestra.
Non mi guarda mai negli occhi, forse per pudore o timidezza, un po’ m’infastidisce, ma sembra sincero.
“Il mio San Silvestro è stato diverso. Prima di raggiungere gli amici, ho cenato coi miei genitori, sono la loro unica figlia”.
“Dal tono col quale lo racconta sembra sia stata una cena dovuta”
“Non mi fraintenda, mi ha fatto piacere stare con loro è solo che…”.
“Che…?”.
“Che non c’erano i miei figli” dico con un velo di tristezza.
“Quindi ha figli”.
“Si. Due: una bambina di nove anni e uno di cinque”.
“Erano col padre?” chiede mentre col corpo si predispone all’ascolto.
“Si, questo Capodanno li ha portati fuori città, è il primo anno che non sono con loro e mi sento come amputata”.
“Capisco, bé saranno stati bene, li ha sentiti?”.
“Non ancora, anzi, le dispiace se li chiamo?”.
“Certo che no, la lascio sola” dice mentre si alza, portando il vassoio con se.
La conversazione col mio ex marito non è piacevole, la nostra separazione è stata traumatica. Negli ultimi anni della nostra unione le mie sofferenze sono state diverse, acuite dal suo comportamento, volto ad umiliarmi costantemente, così da minare fino alle fondamenta la mia autostima, già di per sé piuttosto latitante.
I bambini dormono ancora, ma mi assicura che hanno mangiato e si sono divertiti. Dopo aver chiuso la telefonata vado a cercare Tommaso.
Lo trovo alle spalle della casa, fuori della cucina, dove c’è un vecchio dondolo e delle sedie da giardino; sta fumando il sigaro intabarrato in un caldo giaccone.
“Viene spesso qua?” chiedo raggiungendolo sul dondolo.
“Non quanto vorrei”.
“C’è silenzio, si sta bene”.
“Molto, l’ho ereditata dopo la morte dei miei, in realtà è per metà mia e per metà di mia sorella, che ci viene solo in estate”.
“Venga gliela mostro” dice spegnendo il mozzicone del sigaro.
Al piano terra oltre al salotto e la cucina, c’è un ampio bagno, mentre al piano di sopra ci sono due grandi stanze da letto ed i servizi, infine la mansarda, arredata con un letto singolo, un comò e una scrivania.
Lo immagino qua, da solo, nel silenzio di questo spazio, immerso tra la campagna e il mare.
Il paese è ad un chilometro, Tommaso m’invita a pranzo, dice che c’è un solo ristorante ma è sempre aperto.
Lo raggiungiamo a piedi, mentre con discrezione chiede di me, sarà il profumo del mare, il paesaggio rassicurante o il sole, ma il nodo allo stomaco che da giorni m’impedisce di respirare, all’improvviso si allenta.
Gli racconto di come ho conosciuto il mio ex marito, di quanto abbia influito sulle mie successive scelte, dell’opprimente gabbia nella quale ho accettato mi rinchiudesse e di come lentamente ne abbia preso coscienza.
Ascolta in silenzio, ogni tanto dice capisco, ma non è una parola buttata là, per caso, sento che capisce davvero, che mi ascolta, che mi è vicino come da tempo non sentivo qualcuno ed è ancora più sorprendente se penso che è un perfetto estraneo, che non so se lo rivedrò ancora.
Luigi, il padrone del ristorante, ci accoglie con cordialità, ha aperto da poco ma sembra tutto pronto per il servizio, ci offre un tavolo nella veranda affacciata sul mare, il coperto è semplice, senza fronzoli, ma ho la sensazione che mangerò bene, che qui ci sia aria di famiglia.
Tommaso aggiunge qualche dettaglio al suo desiderio di trasferirsi qui.
Sente che la città lo sta soffocando, questa volta sono io che capisco lui.
Sono cresciuta in una famiglia allargata, dove non ci si sentiva mai soli, ma dalla quale ogni tanto avrei voluto fuggire.
Due genitori presenti ma severi che mi hanno fatto studiare, riponendo in me molte aspettative, ma esercitando una pressione che nel corso del tempo ha inquinato molte delle scelte che ho fatto, rendendomi insicura.
Ho spesso assecondato i desideri altrui, come quando ho cambiato facoltà per non dormire a Napoli, dove frequentavo archeologia, perché il mio ragazzo d’allora non voleva.
Fino a mio marito, che mi ha indotto a rinunciare al mio vero lavoro ed alla mia passione più grande: il canto.
Per lui contavano solo i soldi, i miei progetti, le mie aspirazioni, potevano attendere, anche tutta la vita.
Quindi so cosa significhi soffocare.
Che liberazione quando finalmente il giudice ha sciolto il nostro legame.
La frittura è fresca e asciutta, non mi piace vedere annegare i gamberi nell’olio e questo Albìola è una scelta azzeccata.
Guardandolo mentre mangia, finalmente capisco cosa c’è di diverso da ieri sera: i capelli, li ha tagliati.
È un orologiaio, mi parla del suo lavoro con passione, nella bottega che fu del nonno e poi del padre, tre generazioni di artigiani.
Indossa un bell’orologio, non ne capisco e chiedo curiosa, come sempre.
Carica manuale, un Glashütte degli anni ’60, minimalista ed elegante, eredità di suo nonno.
Finiamo di mangiare e usciamo, il sole è al suo massimo, ci avviamo verso il mare, sono mesi che non cammino sulla spiaggia.
Non si è mai sposato e, aggiunge una frase che mi fa riflettere: “Credo di essere una di quelle persone che sa godere solo dei momenti, che ama per un lasso di tempo ridotto, che si crogiola più nei ricordi di ciò che sarebbe potuto essere, rispetto a ciò che avrebbe potuto realizzare. Come se il desiderio di un amore, fosse l’unico amore che riesco a vivere”.
Arriviamo davanti alla baia, una brezza arriccia le onde.
Tommaso toglie scarpe e calze, io solo le prime, troppo complicato far scivolare i collant senza mostrare imbarazzo.
Il contatto con l’arenile è piacevole, la sabbia è tiepida e s’infila tra le dita; lo seguo senza fare domande, cominciando ad illustrargli i miei progetti: lo studio dove riprendere la mia attività di logopedista, i bambini, la serenità, il canto e poi chissà, qualcosa che non oso pronunciare, che non só se arriverà di nuovo, quasi non lo meritassi.
Rientriamo quando il freddo si fa pungente, il sole comincia la sua rapida discesa dietro l’orizzonte.
Che strana giornata, ho ricevuto diversi messaggi di auguri ma nessuna telefonata.
Anche a Tommaso non ha squillato il telefono, sembra un uomo senza affetti.
Rimaniamo in piedi nel salotto, come in attesa di chissà cosa.
“Le va della musica?”
“Si” rispondo con entusiasmo.
“Scelga lei, ho diversi vinili, anche se forse non troverà grande assortimento di generi” dice preparando il piatto.
Scorro veloce le copertine, scegliendo Postcards from heaven dei Lighthouse Family, quanti ricordi di quel 1997.
L’atmosfera si riscalda coi toni morbidi del loro sound e la voce di Tunde Baiyewu.
Ci sediamo sul divano, vicini, un languore mi prende all’improvviso, questa sensazione di quiete, questo silenzio, scoppio a piangere dal nulla, ma io so che non è così.
Il braccio di Tommaso si posa sulle mie spalle stringendomi a se, senza una parola. Un gesto alle volte determina una situazione.
Le nostre labbra si toccano prima casualmente, poi con consapevolezza, schiudendosi come porte su un giardino profumato, non ricordo da quanto non bacio un uomo ed il fatto di non ricordarlo è già struggente.
Le sue mani sembrano sapere cosa cercare, le mie no, come avessero dimenticato del tutto la grammatica del desiderio, il corpo invece la sta ritrovando velocemente. Non immaginavo di potermi bagnare ancora, non così.
I capezzoli induriti spingono contro la camicetta.
Li stringe tra le dita e loro gridano di piacere, mi abbandono sul divano, qualcosa mi dice che questo momento deve consumarsi qua, davanti a questo fuoco che arde, come me; se lo interrompessimo per spostarci non riuscirei a lasciarmi andare di nuovo.
Ho chiuso gli occhi e cominciato ad usare gli altri sensi, annuso la sua pelle, ha un buon odore, con un sentore di Timo, forse il dopobarba.
Mi toglie con gesti misurati ma decisi la gonna, i collant vengono strappati senza complimenti e mi viene da sorridere, mentre aiuto questo gesto con entusiasmo adolescenziale, al pudore di qualche ora fa.
Le mani sulle cosce, che nonostante le gravidanze sono sode, s’insinuano dentro il perizoma nero, carezzano il morbido bosco che protegge la fessura nuda e gonfia, sento le dita farsi largo tra le labbra, vorrei dire qualcosa ma l’imbarazzo mi rende muta. Reclino la testa, mentre la sua bocca mi bacia il collo, scende verso i seni, la pancia…la fica.
L’ho detto! Mi sta leccando la fica.
Gli altri non l’hanno mai fatto, troppo presi da loro stessi, questo sconosciuto invece si è inginocchiato tra le mie gambe imbrattandosi la bocca come un orso col miele.
Spinge la testa verso il mio ventre, vorrei ricambiare; il mio ex ragazzo, quello che avrei dovuto aspettare e che invece ho lasciato, era felice quando glielo succhiavo.
Ma sentitemi, sono capace di lasciarmi andare fino a questo punto! Non lo credevo possibile, ma sono fatta di carne anche io.
Mi sollevo con delicatezza e siccome la mia lingua ha ancora difficoltà ad esprimersi, decido di usarla sul suo glande viola, che tiro fuori dai pantaloni e ingoio senza guardarlo in faccia.
Mi piace il suo sapore.
Succhio la cappella e scivolo sull’asta insalivandola mentre mi aiuto con la mano.
A giudicare dai suoi gemiti, devo essere brava, fare pompini è un po’ come andare in bicicletta, non puoi dimenticarlo.
Credo di essere febbricitante, mentre affonda la sua verga tra le labbra umide, le mie cosce si agitano intorno ai suoi fianchi, essere di nuovo violata da un corpo è come rinascere.
Tommaso bisbiglia parole spinte nel mio orecchio, è un’esperienza nuova, nessuno mi ha mai parlato così e scoprire che quelle parole non mi disturbano, ma accrescono il desiderio, partecipando alla nuova conoscenza di me, è sorprendente.
Orgasmo, che parola sconosciuta, neppure nei rari momenti che nel tempo ho preso a dedicarmi, riuscivo a lasciarmi andare fino a provarne uno.
Ero così repressa che il mio corpo si rifiutava di godere, come se la parola piacere mi fosse preclusa.
Lui mi ha liberata e mentre da dietro scava nella mia vagina, vengo, con le sue mani sui fianchi morbidi ed il fondoschiena a sbattere contro il suo bacino.
Come un mantello il buio è calato sulle finestre, ci siamo avvolti seminudi in un plaid logoro ma caldo, il fuoco continua ad ardere nel camino.
Il silenzio è interrotto dalla musica rimasta in sottofondo e per timore di alterare l’atmosfera ci bisbigliamo parole, sorridendo di noi.
“Mi è venuto appetito”.
“In cucina c’è ancora parte della cena di ieri”.
Mi alzo e vado a prendere quello che trovo, metto tutto su un vassoio e lo porto in salotto.
Ci sistemiamo per terra, con la coperta sulle spalle e mangiamo allegri.
Il mondo lontano, in un afflato di pudore ci ha lasciato soli.
Tommaso si alza e prende un libro dalla libreria: Il Maestro e Margherita.
“Hai sonno?”
“No”
“Abbiamo tutta la notte per finirlo”
“Certo” rispondo sorridendogli da dietro gli occhiali.
[gennaio-maggio 2020]

Questo è l'ultimo racconto recuperato dal mio archivio. Non so se pubblicherò ancora, perchè è tanto tempo che non scrivo più nulla. Sto ancora cercando di capire il perchè, nel frattempo prendo appunti, chissà che non torneranno utili, prima o poi.

amanuense@blu.it
scritto il
2024-08-19
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