Accettare le condizioni - Capitolo 18

di
genere
dominazione

CAPITOLO 18

Il tempo trascorreva placido in quella che stava diventando una routine, la mia vita si divideva fra Marco e il dottore con il suo pervertito enturage.
Dopo aver scoperto la verità sulla mia situazione avevo vissuto un momento di speranza ma per quanto Marco sembrasse sicuro di potermi liberare io non riuscivo a vedere via d’uscita.
Sapere di essere stata ingannata aveva reso il mio ruolo di oggetto passivo ancor più difficile da subire, le condizioni che avevo accettato mi erano state estorte e il dovere di tenere fede alla parola data, agli impegni presi, non mi sosteneva più. Ora mi sentivo solo tradita e incastrata.
Anche Marco che mi aveva promesso la luce si stava solo limitando a riempirmi di domande sul dottore, la vita del dottore, la casa del dottore, gli oggetti del dottore ma tutti e due sapevamo che le cambiali che mi obbligavano all’obbedienza erano ben chiuse in una cassaforte che non avevamo modo di raggiungere.
Era stato proprio il dottore a dirmi la loro ubicazione, visto il mio, come disse lui, recente poco entusiasmo nello svolgere i miei compiti, una sera, volle ricordarmi che avevo ben poche scelte e lo fece proprio prendendo dalla cassaforte la documentazione inerente a me. Me la sbatté in faccia un paio di volte e poi la andò a riporre consigliandomi di muovermi a finire il mio lavoro che quella sera consisteva in un allenamento muscolare per la fica.
In pratica aveva avvitato un grosso fallo nel mio sesso, dico avvitato perché l’oggetto era fatto come un grosso bullone che tutto intorno era percorso da uno spesso filetto in gomma e, all’estremità, aveva un anello che era l’unica cosa che era rimasta fuori di me.
Mi aveva fatta sdraiare a gambe ben divaricate e alzate, niente lubrificante perché era importante che una volta entrato restasse fermo, mi aveva spinto dentro la prima parte, cinque centimetri privi di filetto e dello spessore di una lattina di coca cola. Fatto questo aveva iniziato a ruotare il fallo in modo che il filetto, incontrata la morbida carne delle labbra della fica, iniziasse ad entrare portandosi dentro gli altri venti centimetri, poco alla volta, giro dopo giro.
Bruciava da morire, per quanto quella troia della mia fica fosse sempre grondante di umori il giocattolo era enorme e quella parte di gomma più sottile penetrava dentro di me stridendo e facendomi guaire.
Ci lavorò per un pezzo e faticò non poco ma, incurante dei miei urli, me lo avvitò ben bene fino a tapparmi la fica fino all’utero.
Il lavoro che dovevo finire non era quello però, riempirmi in quel modo era solo la preparazione.
Iniziò ad appendermi dei pesi all’ anello, partendo da 500 g e volendo salire fino a 10 Kg; metteva un disco da mezzo kilo alla volta per poi mandarmi a fare il giro del tappeto, tondo, del diametro di 2 metri, che c’era in mezzo alla stanza.
Ero ridicola mentre cercavo di camminare, con le gambe divaricate per far spazio al grosso cazzo nella mia fica e ai pesi appesi, nuda, con le braccia legate dietro la schiena.
Lo scopo era trovare il mio limite che ho scoperto essere di 5,5 Kg. Durante il giro di tappeto con i 6 Kg, strappandosi a forza dalla fica, con un dolore lancinante, la vite uscì e il gioco finì non senza che mi venisse assicurato che avremmo raggiunto risultati migliori.
Il ricordo di quella serata era anche il ricordo del non poter raggiungere quei dannati documenti e Marco che non faceva altro che farmi domande su particolari di cui non capivo il senso senza spiegarmi nulla di quello che aveva in testa, però, nei suoi occhi, così sicuri, così certi di potercela fare, trovavo il mio rifugio, la mia pace e non potevo fare a meno di credergli con totale fiducia e devozione.
Neanche perdendomi in questi pensieri riuscii a dimenticare di essere stata appena convocata alla villa. Come da prassi, come da sue direttive, chiamai Marco e gli dissi del mio impegno. Lo facevo ogni volta dalla sera in cui mi aveva detto che mi avrebbe liberata, era stato lui a chiedermelo ma di norma ascoltava il programma che mi aspettava con poca empatia, chiaramente infastidito mentre quella sera, dopo un primo approccio poco entusiasta, i miei programmi lo incuriosirono e si fece spiegare e rispiegare quel poco che sapevo tre volte, chiedendo dettagli e facendo domande per poi salutarmi con un noncurante “ok, vai!”.
Quella sera sarei stata sola con il dottore, non accadeva spesso ma visto che gli era saltato un impegno disse di voler approfittare della serata libera per occuparsi di insegnarmi norme di igiene e di preparazione che, a suo dire, una buona schiava deve ben conoscere.
Consegnati, come di rito, tutti i miei indumenti all’antipatico maggiordomo venni condotta nella stanza padronale al piano terra dove trovai il dottore, disteso sul letto, immerso nella lettura di un libro di medicina, con indosso una vestaglia dalla pregiata manifattura.
La stanza era essenziale se pur arredata con gusto. Una grossa vetrata su una parete che dava sul parco interno, un enorme letto tutto di un bianco candido, due poltrone rosse e un grosso televisore affisso al muro di fronte al letto. Due porte socchiuse, una cabina armadio e la porta che dava in un enorme bagno privato.
Non era certo la prima volta che stavo in quella stanza, il tappeto su cui mi trovavo era proprio quello del gioco della vite, la stessa stanza in cui vi era la cassaforte che non potevo raggiungere.
Il maggiordomo lo salutò e ci lasciò soli.

“Ben arrivata Tania, cominciamo subito”

“Si Dottore”

“Do per scontato che lei sia già perfettamente lavata e pulita giusto?”

“Si Dottore, come ogni volta, come da sue istruzioni. Mi sono lavata accuratamente e non ho messo ne profumi ne deodoranti in modo da non mascherare i segnali del mio corpo”

“Bene, ora si dovrà occupare di lavare me”

Mi fece entrare nel bagno, mi ammanettò le mani dietro la schiena e mi fece estrarre la lingua il più possibile per bloccarla con due legnetti, uno sopra e uno sotto la lingua, tenuti ben stretti da degli elastici in modo che non potessi ritirarla o chiudere la bocca. Mentre lavorava mi diede le sue istruzioni:

“In primo luogo dovrà lavare ogni parte del mio corpo con la sola lingua, facendo attenzione ad arrivare in modo completo ovunque, io le guiderò la testa nel caso fosse necessario, per il resto gradirei assoluto silenzio mentre mi rilasso! Inizi pure”


Dicendo questo lasciò cadere la sua vestaglia restando completamente nudo.
Leccai ogni parte di lui, partendo dal collo fino ai piedi. Quando serviva mi muoveva la testa per portarmi in un altro punto o farmi insistere in una zona.
Mi fece leccare le sue mani, inserendomi in bocca un dito per volta e ruotandolo in modo da lavarlo bene sulla lingua esposta, lo spingeva più in profondità possibile fino ad arrivare a giocare con le unghie sulla mia ugola provocandomi conati che, vista l’impossibilità di ritrarre la lingua dentro la bocca, emettevo in modo veramente ridicolo.
Mi fece leccare tutto il suo torace per poi tenermi per almeno dieci minuti sui capezzoli, non potevo appoggiare le labbra quindi ero costretta a leccarli con la lingua ben tesa aumentando il dolore che i legnetti mi procuravano, ogni secondo sembravano più stretti mentre la saliva mi colava, copiosa, dal mento per poi cadere sui seni sodi e scivolare giù, sempre più giù dove la fica, incontrollabile, colava ancora di più liquido sulle cosce.
Per quanto riguarda la zona genitale si assicurò che lavassi tutto, allargò le cosce in modo da darmi accesso ad ogni millimetro, mi fece leccare tutto il pelo che sovrastava la sua asta, l’asta stessa e mi spinse ben bene lo scroto in faccia, tirandomi la testa e strofinandomelo ben bene sulla lingua ma non mi scopò mai la bocca, neanche per un secondo, era una sessione di pulizia e lui era ligio allo scopo.
Finita la parte davanti, dopo aver leccato bene le gambe fino ai piedi ed aver imboccato e pulito dall’alluce al mellino si girò in modo che potessi dedicarmi alla schiena. Me la fece leccare tutta, centimetro per centimetro come un pittore che imbianca una parete, lo stesso per le gambe mentre mi tenne almeno un quarto d’ora a leccargli l’ano. Me lo fece fare con calma, millimetro per millimetro, spingendomi la testa contro i suoi glutei in modo che affondassi e leccassi il più possibile, fino all’ultima pieghetta. Era un uomo pulito, distinto e se non fosse stato per il male assurdo che avevo in tutto il corpo per le varie, pesanti, posizioni che dovevo prendere per fare il mio dovere, se non fosse stato per la bocca sempre spalancata e la lingua tenuta al suo esterno a forza tanto che stavo perdendovi la sensibilità. Se non fosse stato per questi motivi e anche considerando questi motivi, quella non era certo la sessione peggiore che mi fosse capitata.
Finito il lavoro igienico su di lui mi liberò braccia e lingua, quest’ultima era talmente intorpidita che mi sembrava morta e i muscoli della mandibola si richiusero con un dolore lancinante, come fossero arrugginiti.
Non sarei riuscita a parlare ma questo non era un problema.
Il mio possessore entrò nella doccia e si fece lavare ed asciugare da me poi volle che mi lavassi anch’io in modo da togliere tutta la saliva che mi ero colata sul corpo mentre ero forzata a tenere la lingua fuori dalla bocca.
Una volta pulita mi prese, gentilmente, per la mano e, sgocciolante, mi fece entrare nell’enorme vasca in cui si accomodò anche lui:


“Per quanto lei, giustamente, si sia igienizzata prima di venire qui è bene che sia qualcuno più competente a completare la sua pulizia quindi ora le somministrerò un accurato lavaggio vaginale ed anale.
Sono zone delicate e sensibili che vanno trattate con cura quindi preferisco lavaggi più lunghi e ripetuti con sola acqua all’uso di qualsiasi sostanza pulente che potrebbe alterare la naturalezza del suo corpo andando ad intaccare questa mia proprietà.”

Nella mia testa si illuminarono tutte le pratiche sadiche che i miei orifizi avevano subito in quei mesi che stonarono non poco con il suo discorso sulla delicatezza e la sensibilità, ma sapevo già che mi avrebbe risposto che il fatto che certe pratiche fossero necessarie e potessero ledermi non cambiava l’importanza della cura che stava per somministrarmi.
Mi fece mettere a quattro zampe nella vasca, si piazzò dietro di me e prese il doccino che sembrava apposito per il lavoro di quella sera. Era di metallo lucido, cromato, un’asta dritta dello spessore di un sigaro ma, all’estremità, finiva con una palla piena di fori per far uscire l’acqua che aveva un diametro di almeno 5 centimetri.
Aprì l’acqua molto piano in modo che uscisse appena scorrendo e ricoprendo l’oggetto.
Con una mano mi aprì le labbra del sesso per puntare al suo ingresso l’ingombrante palla.
Iniziò a muovermela per tutta la lunghezza, andando dal clitoride che tenne ben scoperto al perineo. Passò e ripassò premendo con forza in modo da strofinarmi bene ogni parte.
Per quanto l’acqua lubrificasse un po’ il freddo metallo mi tirava la pelle ma questo, mi fu spiegato, era necessario per pulire a fondo.

“aaaaahhhhhhhhhhh, mmmmmmm, aaaahhhhhh”

Senza nessun preavviso mi aveva spinto dentro l’intera palla e continuava a spingere.
L’acqua non lubrificava abbastanza in fretta e la pelle mi rimaneva attaccata al metallo per un po’ prima che il liquido la facesse scivolare e lui spingeva. Guardando da sotto il mio corpo potevo vedere l’asta di metallo entrare a forza fino a che la mano del mio torturatore non mi toccò, spremendolo, il sesso.
Era tutto dentro e sentivo la palla spingere sull’utero. Si fermò e l’acqua iniziò ad accumularsi dentro di me dandomi sollievo.

“Il lavaggio interno, al contrario, va fatto con una buona pressione e con acqua ben calda in modo da dilatare i tessuti e pulire bene ovunque”

Non feci in tempo neanche a capire cosa volesse farmi, sentii solo il rumore del rubinetto e poi l’acqua sparata a forza nella mia intimità. Mi sentivo invasa mentre l’acqua schizzava sulle pareti interne. Potevo vederne una gran quantità che usciva da me e si riversava, come un’erotica cascata, nella vasca.
Ogni forellino del doccino creava un minuscolo getto che con la pressione che aveva sembrava come fatto di rigida plastica, sembrava volermi bucare.
Mi lamentavo come una matta, rigida, sudata, attenta a non muovermi mentre la fica mi si spaccava e lui muoveva quel coso come fosse uno spazzolino con cui puliva un forno incrostato. Me lo muoveva ovunque e l’acqua si stava scaldando. Lo spingeva a fondo con tutte le forze e lo inclinava in modo da raggiungere ogni anfratto.

“scotta, scotta, basta, per favore”

“tesoro, tranquilla, la temperatura è limitata a 43°, posso capire che per te possa essere faticoso ma stai pur tranquilla che non subirai danni”

Vedevo il vapore uscire dalla fica e non so come facessi a rimanere in posizione mentre lui, con calma, completò il suo lavoro passando e ripassando ogni parte più volte.
Non facevo che ripetere, sommessamente, “pietà”, quasi come una cantilena che nessuno ha mai ascoltato fino a che non uscì da me.
Lo vidi ruotare la punta del doccino e il getto cambiò, divenne uno unico ma molto più intenso. Mi venne ordinato di mettermi con il ventre sul lato della vasca, le spalle e le tette fuori, il culo dentro. Mi bloccò le caviglie con le sue gambe e il collo con una mano in modo che non potessi scappare e poi, con quell’unico getto tremendamente forte e bollente mi pulì a fondo le grandi e le piccole labbra per poi finire con il clitoride. Il getto era così forte che il mio bottoncino si scoprì per la pressione e lui lo pulì con insistenza colpendolo in pieno. Urlavo e piangevo mentre cercavo di liberarmi ma la sua mano stringeva sempre più forte, quasi con rabbia permettendogli di continuare a lavarmi fino alla sua completa soddisfazione.
Chiuse l’acqua e mi lasciò; ansimava per la fatica che aveva fatto per bloccarmi ma si disse soddisfatto del risultato.

“Ora le lascio un attimo di riposo e poi penseremo al lavaggio anale”

Io non avevo neanche le forze di alzarmi dal bordo della vasca, vinta, piegata ed esposta mentre lui si andò a fumare un sigaro alla finestra.
Quando tornò mi ero rialzata e messa in ginocchio, senza parlare mi fece piegare in modo da appoggiare il seno sul bordo della vasca e poi si accomodò sulla mia schiena, restandone fuori, schiacciandomi con il suo peso, le tette fra il bordo e lui e costringendomi all’immobilità. Facevo fatica a respirare perché mi schiacciava il torace e mi sentivo le mammelle scoppiare.
Prese il doccino e, in quella posizione, ricominciò il lavoro che aveva fatto alla fica ma nel culo.
Senza lubrificante ci mise almeno quindici minuti a forzare il mio forellino con la grossa palla umida e a farla penetrare nello sfintere fino alla fine del manico ma una volta lì si limitò ad aprire l’acqua, non forte come nella fica ma abbastanza da sentirla premere e farsi spazio nel mio culo poi si alzò e intimandomi di non muovermi di un millimetrò se ne andò.
Passarono lunghi minuti prima che tornasse, a me sembrarono una vita. Potevo respirare e la mancanza del suo peso dava sollievo al seno ma sentivo lo stomaco gonfiarsi.
Potevo sentire chiaramente l’acqua invadermi il culo per poi riversarsi nell’intestino ma non era bollente. All’inizio la sentivo calda ma poi, a mano a mano che mi gonfiavo, divenne sempre più fredda fino a che non iniziarono i crampi.
Gonfiata come un pallone sentivo il ventre tendersi e pesare verso il basso. L’acqua fredda tendeva a contrarre mentre i litri di acqua in me spingevano per farsi posto.
Tremavo per il freddo, per i crampi tremendi mentre non potevo fare altro che lamentarmi ed implorare.
La grossa palla nel culo era ben incastrata ed impediva al liquido di uscire ma ero certa che presto sarebbe saltata fuori per l’enorme pressione che sentivo alle viscere ma lui arrivò prima che accadesse.
Senza chiudere l’acqua si risiedette sulla mia schiena, premendo sulle tette indolenzite e togliendomi l’ossigeno. Controllò la situazione saggiandomi lo stomaco, lo cinse con le braccia e fece pressione, credevo che l’acqua mi sarebbe schizzata fuori dalla bocca mentre lui faceva ondeggiare la mia pancia rigonfia. Facevo il rumore che fa un otre quasi pieno, sentivo l’acqua rimescolarsi in me sotto le spinte delle sue mani sul ventre poi si disse soddisfatto. Chiuse l’acqua e iniziò a tirare fuori a forza il doccino.
Per quanto la palla che indietreggiava nel mio culo aprendolo mi facesse male non riuscivo a pensare che a liberarmi. Per quanto avessi vergogna e paura di quello che sarebbe successo una volta stappata non riuscivo a pensare ad altro che all’essere sgonfiata e come una bottiglia di champagne, con uno schiocco assordante, tutto quel liquido sgorgò fuori riversandosi nella vasca.
Il dolore e il sollievo furono tali che riuscii solo a stare con la bocca spalancata, gli occhi girati, la lingua di fuori mentre mi svuotavo rumorosamente con un getto che non sembrava avere fine.

“ora pulisca tutto e poi ripeteremo il procedimento”

Per cinque volte subii quel supplizio. A volte con acqua fredda, a volte con acqua calda, a volte con la pressione al massimo, cosa che fu veramente insopportabile perché il mio corpo non ebbe neanche il tempo di adattarsi a tutta la massa di liquido.
L’ultima la subii con una lentezza straziante. Ci volle mezz’ora perché fossi piena al punto giusto. Nel frattempo, mentre venivo rabboccata, il dottore si rivestì, si sistemò e lasciò la stanza. Quando tornò venne da me e mi disse di stapparmi da sola, svuotarmi, pulire e poi andare da lui in modo che potesse godere della mia pulizia.
Non riuscivo ad estrarmi quel coso dal culo e ci misi una vita mentre il desiderio impellente di svuotarmi mi attanagliava ma schioccai, per l’ultima volta ed eruttai acqua limpida come di fonte. C’è da dire che a livello igienico, indubbiamente, il processo aveva funzionato.
Barcollante cercai di trascinarmi da lui, entrai nella stanza dove mi aspettava senza sapere cosa mi attendesse ma poi un rumore improvviso, urlai, la porta della camera si spalancò ed entrò il maggiordomo strattonato da due uomini mascherati:

“Dottore, mi perdoni, ho aperto la porta e mi hanno aggredito, li ho dovuti portare qui, mi avrebbero ucciso, mi perd…”


Un colpo secco, uno dei due malviventi aveva colpito il maggiordomo facendolo svenire.
Chiusero la porta, armati, una pistola, un lungo coltello, ci intimarono il silenzio e quello con il coltello si rivolse al Dottore:

“Stronzo, dammi tutti i soldi che hai e le cose di valore”

“Si, si, prendente tutto, i soldi sono nella giacca”

L’uomo prese la giacca, la palpò bene e ne estrasse una mazzetta di banconote poi iniziò a guardarsi intorno, scrutando, frugando e trovò due anelli preziosi, un braccialetto e l’orologio a cui il dottore era tanto affezionato, non se ne separava mai. Quando lo prese vidi la tristezza negli occhi del mio torturatore. Il malvivente appoggiò il malloppo sull’angolo della pesante scrivania.

“Ti stavi divertendo con la tua puttana eh? Guarda che bella figa tutta nuda”

Io ero immobile e impietrita in mezzo alla stanza, nuda mentre il suo compare ci teneva sotto tiro.

“…ma non ho tempo per questo adesso, la tua servitù avrà ormai chiamato la polizia, dov’è la cassaforte?”

“Non c’è, ve lo assicuro, nessuna cassaforte”

“Uno stronzo ricco come te ha sempre una cassaforte ma se non vuoi dirmelo lo chiederò a lei”

Lo sguardo del Dottore cadde su di me, come ad intimarmi di fare silenzio mentre il tipo mi prendeva per i capelli tirandomi, con la schiena, contro la scrivania. Mi fece inarcare all’indietro, la posizione mi rese inerme mentre lui mi puntava il lungo coltello verso la fica:

“sta buona se non vuoi farti male, ora dimmi dov’è la cassaforte o te lo infilo nella fica e ti apro fino alle tette”

Ero terrorizzata e sentivo già il lucido metallo contro una coscia:

“dietro quel quadro, è dietro quel quadro”

“Troia” La voce del dottore ad inveire contro di me mentre l’uomo armato strappava il quadro scoprendo quello che cercavano.
Il tipo con il coltello fu addosso al dottore, lo buttò con la pancia a terra e gli bloccò un braccio con le ginocchia. Gli prese il mignolo della mano, lo allungò e vi posò sopra il coltello:

“te lo chiedo una volta e poi ti taglio un dito, te lo richiedo e un altro dito. La combinazione?”

“ok, ok, ve la dico”

In lontananza rumori di sirene, io mi ero accasciata a terra di fianco alla scrivania, aprirono la cassaforte trovando solo carte e, non ci avevo pensato, le mie cambiali.
I due cominciarono ad urlare mentre urla venivano dal piano di sotto:

“Carabinieri…. Dove sono? Da che parte?”

I due, furiosi per aver trovato solo carta nella cassaforte, stavano imprecando contro di noi minacciando di ammazzarci. Rumore di passi pesanti:

“dai, prendi quelle cazzo di carte, magari valgono qualcosa, prendi soldi e preziosi e scappiamo”

Raccolsero la roba, lanciarono una delle poltrone contro la vetrata, infrangendola e si lanciarono alla fuga proprio mentre la porta si spalancava facendo entrare due agenti.
Era Marco, il mio Marco, uno dei due carabinieri era lui. Sono convinta che non mi vedette neanche mentre io lo guardai scattare all’inseguimento dei malviventi. No, hanno le cambiali, lasciali fuggire e tutto sarà finito, per loro è solo carta straccia e la getteranno liberandomi, finalmente. Avrei voluto urlarglielo ma non potevo in quella situazione.
Marco prese il pesante orologio del Dottore rimasto sulla scrivania, i due uomini avevano almeno 20 metri di vantaggio. Lanciò l’orologio e colpi uno dei due che però continuò a fuggire con lui alle calcagna.
L’altro agente si fermò a soccorrere noi, mi coprì con la sua giacca mentre sentivamo le urla di Marco nel nero del parco di notte.
Era tutto irreale e dopo circa dieci minuti lo vidi tornare e lui vide me.
“Li ha presi?”
“Purtroppo sono scappati però….” Smise di parlare ma intervenne il dottore:

“però vedo che ha recuperato delle cose”

“si… si, sono cadute ai malviventi mentre scappavano”

Il suo sguardo incrociò, per un istante, il mio mentre riconsegnava i documenti, l’orologio e le cambiali al Dottore che mi guardò, l’ira nei suoi occhi per aver detto dov’era la cassaforte davano un valore tutto nuovo alle carte che gli erano state appena riconsegnate assieme al possesso che aveva su di me.
Il Dottore raccontò che eravamo assieme per una visita di controllo fuori orario, disse che erano stati i malviventi a farmi spogliare e in giro non vi era nulla di compromettente.
Inventò una bella storia che io appoggiai da brava schiava e congedò i carabinieri con un appuntamento per il giorno dopo, in centrale, per lo svolgimento delle pratiche di rito.
Quando se ne furono andati il Dottore mi informò che avrei alloggiato alla villa per un po’, me lo disse con uno sguardo che non gli avevo mai visto, mi disse che aveva bisogno di tempo per studiare una punizione adatta a quello che avevo fatto ma che mi voleva a disposizione e nel dirlo un brivido mi percorse la schiena.

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scritto il
2025-02-24
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