Sogni Proibiti

di
genere
prime esperienze

Sin da piccola ero affascinata dal colore dei loro corpi. Quella sorta di buio che sembrava aver avvolto anche le loro vite. Nessuno parlava di loro, perlopiù, erano i “vu cumprà” erano tollerati anche perché venivano considerati persino folkloristicamente divertenti. Sorridevano sempre, anche quando li si prendeva in giro, e riempivano sempre l’aria di gioia, ma nessuno sapeva molto di loro, nessuno era interessato ad approfondire. Si diceva che avevano il pene molto grande e venivano da un “paese” chiamato Africa. Solo alle medie avrei scoperto che l’Africa è un continente.
Mi piacevano quelle persone sempre abbigliate di tanti colori, erano gaie, allegre... eppure camminavano senza sosta per le spiagge col sole alto, trasportavano bancarelle enormi, spingendole senza apparente sforzo. Una forza a malapena celata dalle loro magliette troppo piccole per i loro bicipiti che si indovinavano chiaramente sotto il tessuto.
Nel corso dell’adolescenza, scoprii l’origine di quelle persone. Studiai la geografia e, per interesse personale, mi appassionai all’approfondimento del continente africano. Non c’erano ragioni particolari perché lo facessi. Non avevo nessuna malizia all’epoca, anche se tra noi ragazzini era ricorrente la battuta sulle loro doti. La mia era un’attrazione naturale, innata, pura. In loro sentivo un’energia primitiva che noi avevamo perso. Erano più vicini al vento, al cielo, alla terra. Tutto il loro essere lo diceva.
“Mangia che si raffredda”, mia madre mi distolse mentre ero soprappensieri,. Stavo ripensando ad un documentario che avevo appena visto sull’America del Sud.
“Non ho fame mà”, le risposi.
“Pensa ai bambini in Africa che muoiono di fame”, ribadì.
Ancora! Mi infastidiva questo tormentone che si ripeteva dalla tenera infanzia a tutti i bimbi. Si dipingeva l’Africa come estremamente povera, misera a tal punto da far soffrire la fame ai suoi figli. E noi bianchi che eravamo “fortunati”, per non dire “superiori”, avremmo dovuto mangiare anche per loro. In questo modo, li si compativa, ma poi, paradossalmente, si era pronti a tirare in ballo il temibile “uomo nero” e li si dipingeva come mostri capaci di rubare i bambini e tenerseli per un “anno intero” e, quindi, miseri e ladri. Bisogna avere compassione dei bambini africani che muoiono di fame, ma temerli quando si fanno grandi ed escono dall’armadio.
Nel frattempo della crescita, iniziai a fare le mie esperienze. La prima volta che feci l’amore accadde in un edificio abbandonato. Napoli è una città povera e gli adolescenti di quindici anni nati in famiglie popolari non hanno altro che rovine per appartarsi. Posti spesso condivisi da prostitute, voyeur, omosessuali e tutta la fauna della perversione.
Lui non era certo più esperto di me, eravamo entrambi vergini. Ci spogliammo frettolosamente, continuando a guardarci intorno intimoriti. C’era un vecchio materasso buttato in un angolo, Giorgio si era premurato di portare delle lenzuola. Con una di quella chiuse l’entrata distendendola sulla porta che era stata divelta chissà quanti anni prima. Era un edificio destinato a diventare un albergo, ma i lavori erano stati bloccati perché abusivi ed era in attesa di essere abbattuto. Tutto ciò che aveva un valore era stato rubato in brevissimo tempo e parte della struttura era occupata da vagabondi e drogati. Ma era enorme e c’era sempre modo di appartarsi. Giorgio mi mise goffamente una mano tra le gambe, mentre stringevo il suo pene turgido e palpitante. Non sentivo nulla, ma volevo farlo, lo avevo deciso. Scostai la mano di Giorgio che spingeva troppo contro il mio clitoride facendomi male e mi coricai sulla schiena aprendo le gambe.
“Vieni”, gli dissi.
Lui si sdraiò su di me e mi baciò. Cercava di essere dolce. Era un sforzo terribile per il suo desiderio, mi baciava con così tanta passione che quasi mi faceva soffocare. Girai la testa e gli presi il pene cercando di metterlo dentro. Senza alcuna esperienza, non fu facile. Ero eccitata, ma più al pensiero, per cui non ero cosi bagnata da farlo scivolare dentro di me. Giorgio ebbe un pre coito, sentii un po’ di liquido bagnare le mie grandi labbra e ignorando incoscientemente il rischio di rimanere incinta spinsi. Finalmente entrò in me.
Fu un dolore lancinante. Come una freccia che passa da parte a parte attraverso l’addome o giù di li. Era così forte il dolore che non capivo bene da dove provenisse. Quasi svenni mentre Giorgio spingeva più che poteva alla ricerca di sensazioni, urlai senza volere, prima di mordermi le dita e respingere Giorgio con tutte le due braccia. Chiusi le gambe e mi tenni il basso ventre con tutte e due mani mentre il dolore mi faceva girare la testa.
“È normale… eri vergine. Credo che la prima volta faccia male…”. Cosi mi disse Giorgio dopo.
“Ero vergine…”. Ma se solo avessi immaginato questo dolore lo sarei rimasta per non so ancora quanto tempo. Sì, lo sapevo che avrebbe fatto male, ma non così. Alcune delle mie amiche non avevano quasi sentito dolore, per me, invece, era stato atroce. Guardai scendermi tra le cosce un rivolo di sangue. Giorgio mi passò un piccolo asciugamani e cercai di pulirmi mentre il dolore si attenuava.
Per mezz’ora, non parlammo. Solo un paio di volte, Giorgio mi chiese: “Amò, tutt’appost?”.
Nemmeno rispondevo. I miei pensieri erano altrove. Il sesso era bello, perlomeno da quanto avessi sentito dire, da quanto avessi letto e avevo divorato romanzi d’amore e film sentimentali nei quali il sesso era l’apice dell’amore. Speravo sarebbe stato così anche per me. Ero pronta ad accettare il dolore dell’inizio, per il gioire del futuro.
“Vieni”, dissi a Giorgio sorpreso. Non pensava che lo avremmo rifatto.
“Sicura?”, chiese.
Gli presi la mano e lo tirai addosso a me. Speravo di non sentire più quel dolore, visto che ormai l’imene si era lacerato.
Questa volta non ebbe difficoltà a penetrarmi. Sentii dolore, ma non era come la prima volta. Era sopportabile, seppur per niente piacevole.
Giorgio arrancava su di me, era diventato rosso, respirava rumorosamente mentre saliva il suo piacere. Ad un certo punto, disse: “Amò sto venendo”.
Istintivamente, mi tirai indietro. Un fiotto di liquido seminale mi colpì sul pube con una forza sorprendente. Arretrai ancora e mi affrettai a prendere l’asciugamano per pulirmi. Sapevo che se mi fosse venuto dentro sarei rimasta incinta.
Quella fu la mia prima volta.
Ci rivestimmo di fretta sentendo alcuni rumori provenire dal corridoio. Andammo via lasciando lì lenzuola e asciugamano.
Non rividi più Giorgio.
Non per ciò che successe, ma per ciò che disse ai suoi amici. Era normale per una ragazza della mia età farlo, ma non capivo perché tutti avrebbero dovuto saperlo.
Fu il mio primo, vero confronto con il mondo dei maschi.
Meschino, irrazionale, banale, al limite della cattiveria.
I maschi, cosi come noi femmine, erano in competizione. Ma in un genere di gara che coinvolge i cuori, ferisce altre anime. Sarà per cultura, per valori o per consuetudine, ma l’uomo che colleziona più donne desta l’invidia degli altri uomini. E, guarda caso, viene ambito dalle altre donne. È uno strano circolo vizioso e a pagarne il prezzo più alto sono le donne.
Avevo curiosità del sesso, ma nell’ambiente in cui vivevo erano in vigore regole non scritte che esigevano rispetto. Era un marchio di infamia essere considerata una zoccola. Qualche ragazza del liceo che si concedeva con più facilità veniva immediatamente bollata. E, quando passava, era un susseguirsi di risate maliziose, provocazioni allusive, offese a volte nemmeno tanto velate. Personalmente non lo capivo, non avrei voluto che arrivasse alle orecchie dei miei genitori che loro figlia era una zoccola. Visto poi che uno dei miei due fratelli frequentava la mia stessa scuola, avevo tutte le ragioni di contenere e secretare i miei desideri.
“Antonio...”, chiamai mio fratello che chiacchierava davanti al cancello con i suoi amici. Era un anno più piccolo di me, ma era più alto. Era molto protettivo e, quando aveva saputo di me e Giorgio, per poco non gli diede addosso. Non disse nulla ai nostri genitori, sapeva benissimo quali sarebbero state le conseguenze. Mia madre era una credente al limite del fanatismo e mio padre un bigotto. Avevano avuto tre figli che crescevano a costo di grandi sacrifici. Fortunatamente, mio padre benché ignorante aveva capito l’importanza degli studi ed era molto severo al proposito.
Dovevo stare attenta. Tutta la vita avrei dovuto stare attenta. Attenta a loro, all’amore che mi davano.
Mio fratello tornò a casa con me dopo essere passati al supermercato a sbrigare una commissione per mamma.
Mi toccavo molto in quel periodo, era un piacere cosi intenso che ci non avrei mai rinunciato. Le mie dita conoscevano il mio corpo. Ero una donna. Minuta, forse non bella, ma donna.
Mi masturbavo almeno una volta al giorno. A volte sotto la doccia. L’acqua scorreva sul mio corpo, mentre le mie dita si muovevano tra le mie gambe, un dito esplorava la mia figa bagnata e scivolosa e con l’altra mano mi toccavo il clitoride. Chiudevo gli occhi ed immaginavo una scena di sesso. Ci mettevo poco a venire. Fortunatamente, con tre maschi in casa, la porta del bagno, la chiudevo sempre. Altre volte invece, quando tornavo da scuola e trovavo la verdura fresca, specie le melanzane, ero in estasi. Pregavo che mia madre uscisse, cosi da chiudermi nella mia stanza senza essere disturbata. Dapprima, le melanzane prescelte erano di dimensioni modeste, poi, man mano ci presi gusto e divenni sempre più esperta, così le sceglievo sempre più grandi. Mi piaceva usarle pensando fossero cazzi. La mia mano si muoveva al ritmo desiderato, piano, poi veloce, poi di nuovo piano, poi veloce. Sognavo un uomo che avrebbe saputo finalmente prendermi. Forse non ero normale. Le mie coetanee cercavano l’amore, io ambivo al piacere.
L’anno scolastico finì, fui promossa.
L’estate fu di una noia infinita. Mio padre mi permetteva di uscire ben poco e solo in compagnia dei miei fratelli. Andammo a qualche festa, ma non c’era modo di parlare con nessuno con i miei mastini da guardia sempre alle calcagna. Antonio era abbastanza grande, ma Marco, il piccolo, aveva solo otto anni e non potevo lasciarlo solo. Il risultato fu che vissi di fantasie senza mai poter realizzarle. Anche la masturbazione si era ridotta solo ai furtivi tocchi in bagno. Accompagnavo sempre mamma e sapevo che donna precisa fosse. Ebbi la tentazione mille e mille volte di rubare una melanzana, ma qualora se ne fosse accorta, avrebbe capito subito. Che belle erano le melanzane, le guardavo sempre al mercato, di continuo. Nere, lucenti, possenti.
Il primo giorno di scuola fu una liberazione. Finalmente, avrei potuto riprendere le mie abitudini.
Non pensavo affatto di fidanzarmi. La cosa avrebbe comportato l’ufficializzazione del rapporto, con tanto di presentazione in casa, un preludio ad un prossimo matrimonio.
Io invece avrei voluto finire i miei studi. Il mio desiderio di libertà andava oltre. Forse era dettato dalla mia sete di piacere. L’indipendenza mi avrebbe favorita e c’è un unico modo di raggiungerla; con realizzazione personale. In quell’autonomia che ti permette di decidere.
Era il secondo giorno di scuola quando mi accorsi di lui. Era nuovo e se ne capiva immediatamente il perché; era nero. Era impossibile che passasse inosservato, anzi, tutti lo avevano notato.
Era alto, atletico, con lineamenti che non riuscivo a definire. Aveva un naso forte, ma non sfigurava sul suo viso. I suoi occhi guardavano con curiosità tutt’attorno. Ancora non conosceva nessuno, se ne stava da solo in un angolo, con un libro aperto sulle ginocchia. Ero con gli amici di classe, qualcuno fece una battuta su di lui. Non risi. Lo guardavo fisso, spiando ogni suo movimento. Mi spiaceva che stesse a disagio. Tutti sono a disagio in un ambiente sconosciuto. Avrei voluto avvicinarmi, parlargli, ma sarebbe stato troppo ardito. Avrei dato nell’occhio, era al centro dell’attenzione. Continuai a fissarlo fino alla fine della ricreazione. Poi, tornammo in classe. Lui, per il resto della giornata, ma anche durante la notte, mi rimase in testa.
Armand si chiamava. Avevo sentito uno dei suoi compagni di classe chiamarlo nei giorni successivi. Armand aveva risvegliato in me la curiosità nei confronti delle persone del suo colore. Ma, in realtà, c’era anche qualcosa di diverso e intimo; il desiderio. Dacché da piccola ero solo curiosa, ora, era diverso. Dal primo momento, avevo capito che volevo quell’uomo. Il suo passo felino e potente, i suoi denti bianchi, le sue mani grandi, il portamento elegante, la fierezza del suo sguardo. Io lo volevo, accanto e dentro di me e, ogni volta che potevo, lo avevo con me nei pensieri, compagno dei miei più intimi giochi. La melanzana diventava nella mia mente il suo pene, l’eccitazione raddoppiava, mi toccavo i capezzoli immaginando fossero le sue mani e godevo come mai pensando a lui che mi prendeva selvaggiamente.
I miei compagni di classe notarono ben presto il modo in cui lo guardavo e cominciarono a prendermi in giro.
“Ti piace o nir eh?”, dicevano ridendo. Sì, mi piaceva, ma non potevo dirlo. Anzi, potevo, ma volevo evitare di essere presa in giro.
Nell’immaginario collettivo, il nero è inferiore. L’unica ragione per la quale si poteva andare con un nero, era perché ce l’aveva grosso, il che faceva di te automaticamente una troia.
Ma, in verità, più che gli altri, a preoccuparmi erano i miei, la mia famiglia. Mio padre era un brav’uomo, ma incarnava perfettamente la mentalità di un secolo fa. I tempi erano cambiati, ma i suoi modi erano rimasti antiquati. Non cucinava, non puliva, non caricava la lavatrice, né lavava i piatti. A volte, raramente, accendeva url camino, o faceva il caffè mentre io e mia madre eravamo occupate a sparecchiare e a lavare. I miei fratelli stavano crescendo a sua immagine, con le stesse concezioni. Non che mio padre fosse cattivo; era un uomo semplice che pensava che ad un brav’uomo servisse una brava moglie. Secondo il suo elementare concetto della vita, era suo dovere portare il pane a casa, com’era dovere di mia madre, curarsi della casa e dei figli. Una suddivisione di ruoli che riteneva equo. Ma, ripeto, era un uomo buono. Benché lo amassi e lo ami con tutto il cuore, non lo avrei mai voluto come marito. Come padre, sapeva farsi rispettare; parlava poco e sapeva incutere timore. Mia madre era la classica casalinga. Anche lei aveva studiato poco, quel poco che non le permetteva nemmeno di parlare bene italiano. Non me ne vergognavo, anzi, mi divertiva molto. Era una donna coraggiosa che amava suo marito, non una donna sottomessa e rassegnata. Si erano sposati per amore e non per costrizione e non lo aveva mai rimpianto. Nessuno dei due. Mamma era molto religiosa e, pertanto, per lei era importante il sacramento del matrimonio prima della fornicazione. Per entrambi sarebbe stato inconcepibile che io non arrivassi vergine al matrimonio.
Pensavo ai miei genitori e alla loro reazione se avessero saputo che avevo una storia con un africano. Mamma li chiamava “poveri cristi”, e mio padre, invece, inveiva contro gli arrivi sempre più numerosi sulle coste italiane di quei disperati che partivano dalla Libia.
Avevo sedici anni, un corpo molto più maturo, e tanti desideri da soddisfare…
Ero in fiamme al solo pensiero di lui. Il battito del cuore accelerava, le gambe diventavano molli, mi saliva un groppo in gola. Quando lo vedevo poi… era una sensazione talmente intensa, la stessa che si prova davanti ad un’opera d’arte cosi bella da togliere il fiato.
Feci carte false per conoscerlo. Fu un momento così esaltante da confondermi e rendermi persino difficile ricordarlo, tanto era grande l’emozione. Lui mi diede la mano e non so come ricambiai mentre mi sorrideva ed illuminava il mio mondo. La sua mano… grande e calda avvolse la mia e la strinse forte. Stavo per svenire.
Eppure, ero una ragazza normale, con la testa sulle spalle. Almeno, così si diceva da me, ma quella pelle, per me era magnetica.
“Ti piace?”, mi chiese Armand.
Eravamo sul lungomare, il posto dove ogni adolescente napoletano porta la ragazza che desidera... ed era proprio lì che mi aveva portato Armand. Ne fui sorpresa ed emozionata. Voleva sapere se trovassi di mio gradimento il gelato che mi aveva offerto.
“Si, mi piace”, risposi sorridendogli.
Non eravamo ancora in grande confidenza. Erano passati pochi giorni da quando ci conoscevamo, e l’unico momento in cui ero riuscita a parlargli, fu durante un caffè al bar con altri decine di studenti. Per pudore, per non imbarazzarlo, gli lasciavo il suo spazio, accontentandomi di spiarlo da lontano, aspettando il momento giusto. Quel momento arrivò proprio durante la chiacchierata al bar. Diceva di non uscire molto perché era nuovo in città e non aveva molti amici.
“Se vuoi usciamo insieme”, gli proposi.
Lui disse di sì... ed ecco dove mi aveva portato.
Da quando lo avevo conosciuto, mi preparavo con molta più cura di prima, al punto da destare la curiosità di mia madre che chiaramente aveva capito il mio interesse per un ragazzo.
“Quanti anni ha? È carino? Studia?, mi incalzava spesso con queste domande negli ultimi giorni e non aveva tutti i torti. Non dico che fossi diventata un’altra persona, ma volendo attrarre l’attenzione di Armand, ero diventata più sofisticata e attenta nella cura di me stessa; dai capelli alle unghie, passando per un trucco leggero ma accurato... tutto questo fece sì che cominciassi ad attirare l’attenzione di molti altri ragazzi che non mi avevano mai degnato di uno sguardo. Pur non avendo disponibilità economica, ogni napoletano sa dove andare a pescare vestiti alla moda e griffati, a prezzi contenuti. Ovviamente, erano falsi, ma almeno davano l’impressione di far parte del gruppo, di essere inclusi. Cominciai anche a depilarmi, comprandomi la crema depilatoria di nascosto da mia madre. La prima volta mi bruciai le grandi labbra, ma poi - per fortuna - diventai più esperta. Credevo che Armand non mi avrebbe guardata se non avessi cambiato la mia apparenza.
Era un bel ragazzo e, malgrado tutti i pregiudizi, aveva saputo conquistarsi la simpatia di quasi tutta la scuola in breve tempo... ed era ambito da tante ragazze, perciò dovevo darmi da fare.
Armand era più grande di me di un paio di anni. Era già maggiorenne. Mi spiegò che aveva perso un anno di studio perché arrivato dal Congo in adozione a sei anni. Non si dilungava molto sulla sua vita. Sembrava gli dolesse raccontare di se stesso. Credo che in quel momento di debolezza, persi completamente la testa per lui.
Fui io a proporgli di andare in quel vecchio albergo abbandonato, lui nemmeno lo conosceva. Sapevo che le occasioni per vederci non sarebbero state tante, e non volevo sprecare nemmeno un istante. Pensai alla mia scelta di mettere la gonna, se avessi indossato i pantaloni, si sarebbero bagnati. Sentivo le mie voglie colarmi sulle cosce già mentre mi teneva la mano andando verso il nostro nido d’amore. Poi quando mi baciò, l’universo intero cominciò a girarmi vorticosamente attorno. Dovetti aggrapparmi a lui per non cadere. Ci baciammo ancora ed ancora, sotto lo sguardo divertito dei passanti con una passione dettata dal mio viscerale desiderio per lui.
Non potevo tornare a casa tardi. Andammo nel posto dove avevo perso la verginità, ma era l’unico posto che conoscevo e dove avremmo potuto avere un po’ di privacy. Comprammo un po’ di salviette imbevute e ci avviammo mano nella mano.
Entrammo nell’edificio guardinghi e salimmo fino all’ultimo piano. Trovammo una stanza polverosa con alcuni cartoni ammucchiati sul pavimento ed entrammo li. Armand fece dapprima una specie di giaciglio poi, con il resto dei cartoni, improvvisò una specie di paravento che almeno ci riparasse da sguardi indiscreti. Nel frattempo, presa dalla frenesia, mi ero già spogliata e lo aspettavo seduta in mutande.
Era ancora giorno, non c’erano imposte alle finestre. La luce entrava senza filtri. Armand prese un cartone da sotto di me, e lo incastrò a mo di tenda per rendere l’atmosfera più soffusa.
Solo allora si spogliò.
Era come se danzasse solo per me. Sfilando la maglietta, alzò le sue potenti braccia nere, scoprendo una pancia leggermente scolpita dagli addominali. La sua pelle luccicava, quasi mandava bagliori, era come se mi irradiasse tutta.
Indossava slip bianchi che creavano un contrasto eccitante sulla sua pelle nera e che lasciavano indovinare un gonfiore notevole. Mi emozionava guardare le sue parti intime. Ero un lago di lava bollente. La mia mano, già giocava col clitoride. Ero addirittura in procinto di venire. Venne verso di me e mi si sedette accanto. Mi rialzai e lo baciai, mentre con le mani armeggiavo con i suoi slip. Mi scappò un gridolino quando tirai fuori il suo pene. Sembrava un grosso serpente pronto a mordere. Non ero esperta di cazzi, ma di melanzane sì, e questa era una di quelle di un calibro notevole.
Lui mi prese la mano e mi disse nell’orecchio: “ Piano…”.
Presa dalla frenesia, agitavo il suo pene seguendo il mio istinto, stringendoglielo forte. Mi mostrò come toccarlo, con un movimento fluido, con leggerezza e decisione allo stesso tempo e, mentre lo facevo, prese anche lui a toccarmi, continuando a baciarci.
Ero in paradiso.
Entrò in me come se ci fosse sempre stato. Di colpo. Ero così bagnata che scivolò fino in fondo, facendomi godere come non avevo mai fatto. Entrò in me ancora ed ancora, per interminabili minuti, mentre non smettevo di godere. Orgasmo dopo orgasmo, sentivo il suo sesso pulsare in me, farsi strada, toccare il mio intimo con una potenza tale da sconvolgermi. Gemevo forte e a volte gridavo anche. Armand mi mise la mano sulla bocca e continuò a prendermi.
Poi mi girò e mi penetrò da dietro. Era la prima volta che lo facevo cosi. In verità era la seconda volta in assoluto che facevo sesso. A carponi sentii il suo membro duro come un pezzo di ghisa penetrarmi, mentre le sue mani si aggrappavano ai miei fianchi.
Istintivamente, misi la mano tra le mie gambe per masturbarmi. Rimasi sorpresa di sentirla appiccicosa e mi portai la mano davanti al viso, temendo che fosse sangue.
Non lo era. Era una sostanza bianca, simile a quella che mi era capitata di osservare a volte, quando con la melanzana avevo un orgasmo molto forte, ma era poco in confronto a ciò che mi stata succedendo ora. Armand non si fermava, e così la mia mano tornò al mio clitoride, aiutandomi a provare un piacere ancora più intenso.
Smettemmo all’improvviso, allarmati da un rumore che veniva dal di fuori. Cosi rimanemmo in silenzio, senza muoverci, per almeno un quarto d’ora, fin quando sentimmo i passi allontanarsi. Lui, nel frattempo, era rimasto dentro di me. Anche immobili, lo sentivo pulsare dentro di me e non smettevo di godere.
Armand poi si stese accanto a me, io gli salii sopra in un impeto. Gli presi il cazzo in mano e lo guidai in me.
Chiusi gli occhi, per assaporare meglio la sensazione. Senza che me ne accorgessi, ad un certo punto, mi muovevo in modo velocissimo su di lui che arcuava il bacino offrendomi tutta la sua verga sulla quale impalarmi. Venni insieme a lui alzando la testa al cielo come per ringraziare le divinità esistenti di tanta meraviglia e magia.
Era tardi e dovemmo andare via in fretta e furia.
Quel giorno uscii da casa ancora ragazzina, tornai donna e, sebbene in quel momento non lo sapessi ancora, anche madre.
Armand non abita più a Napoli. È andato via dopo essere uscito dal carcere.
Mio padre lo denunciò quando seppe che ero incinta. Mia madre, fervente cattolica, non volle che abortissi. Se ne rese conto dopo poco più di un mese che vomitavo. Mio padre non perdonò Armand, lo fece condannare, ed anche se non mi cacciò da casa, non mi parlò per anni.
Poi nacque Patrizia. Una benedizione per che amavo l’Africa e i suoi color per chi vedeva il mondo come fusione dei colori, come mosaici,… era come se l’Africa fosse entrata in me e, per sempre, ne sarebbe stata parte.
scritto il
2022-01-27
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