Cazzo, che bell'idea
di
RunningRiot
genere
etero
Torno a casa e dallo scatto della serratura capisco che lui è già dentro e mi aspetta. Di solito avviene il contrario, è tornato prima. Mi sorride, gli sorrido. Non c'è bisogno di molto altro, ci siamo già sentiti, anche se non riuscivo quasi a parlare per l'emozione. Conosce l'essenziale.
È andata bene, quando riuscirò a essere meno ipercritica magari riconoscerò che è andata benissimo. Sia durante che dopo. Con i complimenti e le pacche sulle spalle che fanno tanto "benvenuta nel nostro circolo virile", con quello che tira fuori la parola "bonus" come se fosse un segreto riservato agli iniziati, quell'altro che fino a ieri mi considerava una scema totale e che ora se ne esce con "eh, lo sapevo... io lo sapevo".
"Te l'avevo detto", mi fa Luca. Rispondo: "Eh...". Poi lascio andare per terra borsa e cappotto, appoggio lo zainetto con più cura perché dentro c'è il laptop e avanzo verso di lui. I miei tacchi risuonano sul parquet artificiale. Lo abbraccio, mi lascio avvolgere dal suo abbraccio. Mi viene quasi da piangere e in realtà piangerei volentieri. È la tensione. Lui mi alza il mento con l’indice e mi dà un bacetto sulle labbra. Mi sorride ancora, mi guarda, si diverte a disegnare con le dita sentieri tra i miei capelli. "Toccherà uscire a festeggiare", dice. "Per ora ho solo bisogno di una doccia", rispondo. Mi sento addosso una sporcizia fatta di ansia e paura trasudate dal mio corpo, sento i muscoli ancora tesi. Mentre guidavo mi è pure preso un crampo che mi ha quasi obbligata a fermarmi per quanto faceva male, ho un polpaccio ancora indolenzito.
"Ti ho preparato un bagno e il gin tonic è già in frigo", sussurra. Gli sorrido giusto un po'. Sento tutta la gratitudine del mondo ma non riesco ancora a esprimerla. Solo ora vedo, appoggiato su un bracciolo del divano, il bicchiere rosso di negroni che di solito gli preparo io. "Devi aspettare un attimo, però, sarà ancora bollente... non sapevo quando tornavi". "Farò scorrere un po' di acqua fredda...". "Mi sa che così donna-in-carriera non ti ci avevano mai vista". "Ah... ahah, non lo so".
Ho un flash di memoria che mi riporta a stamattina, dopo la doccia, quando mi sono resa conto di non avere ancora pensato a cosa mettermi addosso, un dettaglio che invece poteva essere importante. Vicina al panico, sono andata in automatico: pantaloni grigio scuro, giacca dello stesso colore, più o meno, camicetta bianca. Outfit per il patibolo.
Oggi pomeriggio avevo la prima presentazione tutta mia, con i mostri. Mostri davanti, i clienti, e mostri dietro, i capi. Mi ci vedevo così, come la sfortunata protagonista di un film di zombie. Zombie. In your head, in your head, in your head. Mentre mi lavavo canticchiavo e, a un certo punto, sono sbottata: basta basta basta! Non ne potevo più di ripetere a memoria i passaggi chiave della presentazione, li avevo visti e rivisti fino a ieri sera tardi. Al computer, in cuffia. Mentre lui guardava, nell'ordine, i mondiali e due puntate arretrate di White Lotus.
Le ultime settimane sono state furibonde, c'è stato poco spazio per altro che non fosse il lavoro. C'è stata l'angoscia di dover fare, di dover dimostrare a gente che stimo, ma anche a gente che non stimo, che persino "l'ultima arrivata"... Eh, non è esattamente così, eppure me lo sono sentito dire, se sei una ragazza sei sempre l'ultima arrivata. Ho pensato tante volte di avere accettato una sfida troppo grande. Un progetto mio, un piccolo team mio, dover dire a qualcuno "no, mi spiace, non mi servi, avrai altre opportunità", però forse ora non gli rinnovano il contratto. Tempi stretti, ansia da prestazione, voglia di dimostrare di essere intelligente, perfetta, la migliore, di soddisfare ogni aspettativa. Una gabbia, come al solito. Nella mia vita mi sono sempre infilata in una gabbia dopo l'altra. E badate bene che me le sono costruite io, eh? Obiettivamente, nessuno ha mai preteso niente da me, probabilmente perché sin da piccola ho sempre fatto in modo che da me non si potesse pretendere nulla, tutto quello che c'era da dare l'avevo già dato. Perfetta, appunto. Per dire, nemmeno i miei mi hanno mai detto niente, anzi. "Cazzoooo, perché solo otto alla verifica di greco?", "dai Topolina, è un ottimo voto", "ottimo voto un c..orno! Quella stronzaaa!". Sempre così, su tutto. Ma perché non ho fatto, che ne so, la segretaria di un cardiologo? Si vive meglio!
Anche stavolta mi ci ero ficcata da sola, nella gabbia. E come sempre, con il retropensiero di averlo fatto per essere portata in palmo di mano. Dai miei, da Luca ora che c'è Luca, dai capi ora che si chiamano capi e non più professoresse o professori. L'altra cosa che mi ha fregata – persino inutile dirlo - è che sono fatta così, la competizione è un richiamo troppo seducente per me.
Alla fine però la paghi, è ovvio che la paghi. Con te stessa, con gli altri, con chi ti vuole bene. Finisci per sacrificare tutto. E allora daje con mia madre che vuole sapere se prendo le pillole, con le mie amiche che mi chiedono se per caso non mi è cascato l'iPhone nell'acqua con tutti i contatti dentro, con Luca che mi sopporta ma chissà fino a quando mi sopporta…
Sono state settimane in cui c'è stato poco spazio per l'intimità, persino per l'amore. Il sesso sì, c'è stato spazio per il sesso. Perché a un certo punto la fica supplica e la bocca è ingorda, i suoi testicoli sono pieni e il cazzo forse gli fa male per quanto gli tira. C'è stato spazio per quello, sì, a sfogarci. Ginnastica. Senza complicità, giochi osceni, duelli mentali. Senza quello che siamo noi, insomma. Chissà dove siamo finiti. Mi è mancato lui. Mi è mancata me stessa quando sto con lui.
Vabbè, ci penseremo. Non adesso. Non so nemmeno se mi va di uscire a cena, non saprei che dire, non saprei di che parlare, ho la testa vuota. "Vado", gli dico. "Dove?", domanda e io già gli volto le spalle. "A fare il bagno", rispondo mentre la sua mano sulla pancia mi blocca, arresta la mia uscita dal salotto. "Aspetta", mi fa. L'altra mano mi cerca il sedere e poi tra le cosce.
Reazioni? Beh, la reazione immediata è di sorpresa, di quelle che un "ma che cazz...?" descriverebbe benissimo, anche se lo penso soltanto. La seconda reazione, appena un po' più meditata, è invece un "oh, ma che ti prende?", stavolta detto ad alta voce. Davvero pensa che basti questo? Come cazzo fa, che si è messo in testa? Quanto poco mi conosce per non sapere che potrei incenerire tutto da un momento all’altro?
Eccola, è la sintesi perfetta delle ultime settimane di noi due. Perché invece dovrei saperlo perfettamente cosa gli prende, dovrei essere capace di capire al volo se sta scherzando o se fa sul serio, dovrei essere capace di sfuggirgli, se mi va di sfuggirgli, o consegnarmi se mi va di consegnarmi. Dovrei accettare, se non addirittura desiderare, che il ghiaccio nel suo bicchiere di negroni mi finisca dentro il reggiseno. In ogni caso, stando al gioco, sfidandolo a fare a gara a chi cazzeggia meglio, a vedere se sono più porca io o se è più porco lui. Ma soprattutto – sesso a parte perché la cosa più importante ora non è il sesso - dovrei essere capace di capire cosa mi sta dicendo davvero: ritorna, io sono dalla tua parte sempre e comunque, sono con te, ti sostengo, ti apprezzo, ti amo e ti desidero. Perché anche io gli manco e gli manca se stesso quando sta con me. Ecco cosa significa quella tastata di culo.
Ecco, dovrei sapere esattamente tutte queste cose. Invece, quando la sua mano mi si piazza sulle reni e cerca di scivolare dentro i pantaloni, reagisco con fastidio: "No dai, così li rompi, piantala". Ma lui non li vuole mica rompere e quindi, asola, fai ciao ciao al bottone. E, quindi, ecco la mano sinistra che si infila davanti e ecco la mano destra che si infila dietro, nelle mie culottes. Sì oggi culottes, un po’ alla brasiliana ma pur sempre culottes. Più eleganti. Come se quando le ho scelte mi aspettassi che qualcuno mi chiedesse "signorina, ci fa vedere anche le mutande?". "Ma certo, mica male, eh? E sapeste che tesoro custodiscono...". E invece adesso il mio tesoro è nelle sue mani, tra le sue dita. Quelle sinistre a cercare un altro bottoncino, quelle destre a percorrere la mia apertura.
Parla la mia voce degli ultimi giorni: "Basta, dai, voglio lavarmi, non mi va". Parla la sua voce di ogni mattina in cui mi sveglia così: "Non mi pare proprio". Il mio cervello va da una parte, il mio corpo dall'altra. E in questa separazione, in questo abbassamento delle difese, lui si infila, mi infilza. Trova ogni secondo che passa la strada più agevole. Ripete “non mi pare proprio”, il corrispettivo di tutte le volte in cui mi ha detto con sarcasmo "uh, che lago" oppure "c'hai proprio voglia, eh?". Fa parte del nostro linguaggio eccitarci facendo finta di schernirci a vicenda, un po' tipo la vecchia battuta del coniglio nei pantaloni, per quanto riguarda lui.
Per quanto riguarda invece il mio cervello non saprei, per il corpo ha ragione. Me ne accorgo dopo un po' però è vero: sono bagnata e nonostante tutto non mi dispiace. Protesto ma, progressivamente, sempre meno. Lo capisce? Certo che lo capisce, non dispiace neanche a lui che io più o meno protesti: "Zitta, femmina".
Zitta, femmina. Quando dice cose del genere gli posso rispondere con altrettanta ironia "tacerò, mio signore" oppure "vattenaffanculo, stronzetto, e sottomettiti alle mie voglie". Nel primo caso posso aprire la bocca per indicargli in che maniera deve farmi tacere, nel secondo magari mi siedo sulla sua faccia. È indifferente. Cioè, non proprio indifferente, dipende da chi dei due si sente Player 1 o Player 2. A me piace essere Player 2, di norma. Ma si cambia, eh? ogni tanto ci si alterna. Sennò sai che palle...
Stavolta però non dico proprio nulla, non mi viene. E anche se mi venisse, non ce la farei. Merito suo, certo, ma credo soprattutto della mostruosa riserva di endorfine che ho accumulato e che si sprigionano tutte insieme. Cedo, crollo proprio miseramente, come se avessi una corda che mi tiene legata e che all'improvviso si spezza, tung! Supplicare "tienimi che cado" oppure lasciarsi andare sul divano, le alternative sono queste due. Le ginocchia mi si piegano da sole e scelgono per me, scelgono il divano: arrampicarcisi sopra è una specie di scalata, appoggiare le mani al muro per evitare di sbatterci la faccia è una sofferenza. Il grilletto sedotto e abbandonato protesterà ma, scusami tanto, non ce la facevo proprio a stare in piedi. Nemmeno li sento i miei gemiti, anche se do per scontato che ci siano. Sento le sue dita che mi aprono, invece, il rumore che fanno quando sciacquano, la sua voce divertita che domanda "davvero non ti va?". Bum! La saetta. Chi cazzo vuole smettere di tremare? Saranno cazzi miei, no? Intanto tu vai avanti, continua, ne voglio un altro di orgasmo, ne voglio uno più lungo.
- Non smettere! Non smettere!
- E chi smette?
- Cazzo, che bella idea che hai avuto.
- A proposito...
No! L'horror vacui no! Dove sono finite le dita? Come stracazzo è possibile che non riesci a sbottonarti i pantaloni con la sinistra?
Ah no, non è così, è peggio di così. È il gioco sadico, è l'attesa, è San Lorenzo piazzato sulla graticola e fatto alla brace: i miei pantaloni possono essere calati più velocemente di così! le mie culottes le hai già allentate, non c'è bisogno di abbassarle piano piano! sono molto sexy le carezze sulle natiche, ma non ho bisogno di carezze sulle natiche adesso! e la mia vulva non ha bisogno di essere spennellata dall'alto in basso e dal basso in alto lungo tutto il corso del suo gonfiore.
"Amore, ti prego, sfondami e aprimi come una cozza": molto da porca. "Amore, ti prego, fottimi come una troia che non vale un cazzo": molto sottomessa. "Amore, ti prego, penetrami e dammi piacere": molto dignitosa. Temo però che più di qualcosa che assomiglia a un "gniiinnnngh!" non mi esca fuori. Vabbè, sarà per un'altra volta. Ma tanto tu non sei mica un ragazzino, no? L'hai capito quello che voglio dire, no? Non metterci un'eternità, io un'eternità non ce l'ho, lo vedi da te.
Se queste sono le tue voglie, adesso, allora queste sono le mie uniche voglie, adesso. Lo vedi da te. Questi sono i miei unici pensieri. Questo è il mio culo che sporgo all'indietro, questa è la mia vagina che hai già aperto. Puntala, entra. C'è un vuoto da riempire, e tu lo fai così bene. Accogli il mio urletto, prendilo come un invito, prendilo come una resa. Prendi possesso. Prendimi, possiedimi. Imbottiscimi e fatti sentire ovunque, fatti sentire tutto. Fatti sentire fino in fondo. Compiaciti delle mie gambe che picchiano sul divano, delle mie mani che si aggrappano al divano. Sii indulgente con le mie invocazioni: scopami, fottimi, sfondami. Sì, lo so che sono pleonastiche, che quando arrivano mi stai già scopando, mi stai già fottendo, mi stai già sfondando. Ma lasciamelo dire, lasciamelo piagnucolare, lasciamelo urlare. Sii feroce con la mia carne: voglio sentirmi dominata di più, essere dominata più forte. Afferrami le chiappe, le anche, e spingi: esci e rientra nel mio corpo. La tua vittoria sarà il mio grido squarciato, la mia supplica saranno tre parole: "è così duro". Non è una supplica a fare piano, lo sai, è una supplica a farmi quel genere di male che mi piace tanto. Puoi aggiungere del dolore supplementare, se vuoi. Quello che provocano i tuoi sculaccioni o il tuo pollice che mi si pianta nel culo mentre mi sbatti così. Lo so che ci godi, lo sai che ci godo. Fa' il cazzo che ti pare e non darmi nemmeno mezza scusa per dirti un solo no. Non voglio dire nessun no. Semmai, soffocherò i miei gemiti sul cuoio, semmai mi morderò il braccio.
Sono bastati cinque minuti, come quando arriva la tramontana a spazzare l'aria dall'inquinamento. Hai spazzato l'inquinamento dal mio cervello, mi hai posseduta e messa a posto, mi hai fatto perdere la testa ma allo stesso tempo me l’hai fatta ritrovare, hai chiarito senso e priorità, mi hai rinnovata. Quando mi volto a guardarti e ti piagnucolo "sono la tua cagna" c'è tutto questo e, beh sì, c'è anche molto di più. Quando rispondi trafelato "sei la mia cagnetta in calore" c'è molto di più. Molto di più di un immaginario porno da quattro soldi.
Cazzo, che bell'idea che hai avuto.
Cazzo. Che bell'idea.
È andata bene, quando riuscirò a essere meno ipercritica magari riconoscerò che è andata benissimo. Sia durante che dopo. Con i complimenti e le pacche sulle spalle che fanno tanto "benvenuta nel nostro circolo virile", con quello che tira fuori la parola "bonus" come se fosse un segreto riservato agli iniziati, quell'altro che fino a ieri mi considerava una scema totale e che ora se ne esce con "eh, lo sapevo... io lo sapevo".
"Te l'avevo detto", mi fa Luca. Rispondo: "Eh...". Poi lascio andare per terra borsa e cappotto, appoggio lo zainetto con più cura perché dentro c'è il laptop e avanzo verso di lui. I miei tacchi risuonano sul parquet artificiale. Lo abbraccio, mi lascio avvolgere dal suo abbraccio. Mi viene quasi da piangere e in realtà piangerei volentieri. È la tensione. Lui mi alza il mento con l’indice e mi dà un bacetto sulle labbra. Mi sorride ancora, mi guarda, si diverte a disegnare con le dita sentieri tra i miei capelli. "Toccherà uscire a festeggiare", dice. "Per ora ho solo bisogno di una doccia", rispondo. Mi sento addosso una sporcizia fatta di ansia e paura trasudate dal mio corpo, sento i muscoli ancora tesi. Mentre guidavo mi è pure preso un crampo che mi ha quasi obbligata a fermarmi per quanto faceva male, ho un polpaccio ancora indolenzito.
"Ti ho preparato un bagno e il gin tonic è già in frigo", sussurra. Gli sorrido giusto un po'. Sento tutta la gratitudine del mondo ma non riesco ancora a esprimerla. Solo ora vedo, appoggiato su un bracciolo del divano, il bicchiere rosso di negroni che di solito gli preparo io. "Devi aspettare un attimo, però, sarà ancora bollente... non sapevo quando tornavi". "Farò scorrere un po' di acqua fredda...". "Mi sa che così donna-in-carriera non ti ci avevano mai vista". "Ah... ahah, non lo so".
Ho un flash di memoria che mi riporta a stamattina, dopo la doccia, quando mi sono resa conto di non avere ancora pensato a cosa mettermi addosso, un dettaglio che invece poteva essere importante. Vicina al panico, sono andata in automatico: pantaloni grigio scuro, giacca dello stesso colore, più o meno, camicetta bianca. Outfit per il patibolo.
Oggi pomeriggio avevo la prima presentazione tutta mia, con i mostri. Mostri davanti, i clienti, e mostri dietro, i capi. Mi ci vedevo così, come la sfortunata protagonista di un film di zombie. Zombie. In your head, in your head, in your head. Mentre mi lavavo canticchiavo e, a un certo punto, sono sbottata: basta basta basta! Non ne potevo più di ripetere a memoria i passaggi chiave della presentazione, li avevo visti e rivisti fino a ieri sera tardi. Al computer, in cuffia. Mentre lui guardava, nell'ordine, i mondiali e due puntate arretrate di White Lotus.
Le ultime settimane sono state furibonde, c'è stato poco spazio per altro che non fosse il lavoro. C'è stata l'angoscia di dover fare, di dover dimostrare a gente che stimo, ma anche a gente che non stimo, che persino "l'ultima arrivata"... Eh, non è esattamente così, eppure me lo sono sentito dire, se sei una ragazza sei sempre l'ultima arrivata. Ho pensato tante volte di avere accettato una sfida troppo grande. Un progetto mio, un piccolo team mio, dover dire a qualcuno "no, mi spiace, non mi servi, avrai altre opportunità", però forse ora non gli rinnovano il contratto. Tempi stretti, ansia da prestazione, voglia di dimostrare di essere intelligente, perfetta, la migliore, di soddisfare ogni aspettativa. Una gabbia, come al solito. Nella mia vita mi sono sempre infilata in una gabbia dopo l'altra. E badate bene che me le sono costruite io, eh? Obiettivamente, nessuno ha mai preteso niente da me, probabilmente perché sin da piccola ho sempre fatto in modo che da me non si potesse pretendere nulla, tutto quello che c'era da dare l'avevo già dato. Perfetta, appunto. Per dire, nemmeno i miei mi hanno mai detto niente, anzi. "Cazzoooo, perché solo otto alla verifica di greco?", "dai Topolina, è un ottimo voto", "ottimo voto un c..orno! Quella stronzaaa!". Sempre così, su tutto. Ma perché non ho fatto, che ne so, la segretaria di un cardiologo? Si vive meglio!
Anche stavolta mi ci ero ficcata da sola, nella gabbia. E come sempre, con il retropensiero di averlo fatto per essere portata in palmo di mano. Dai miei, da Luca ora che c'è Luca, dai capi ora che si chiamano capi e non più professoresse o professori. L'altra cosa che mi ha fregata – persino inutile dirlo - è che sono fatta così, la competizione è un richiamo troppo seducente per me.
Alla fine però la paghi, è ovvio che la paghi. Con te stessa, con gli altri, con chi ti vuole bene. Finisci per sacrificare tutto. E allora daje con mia madre che vuole sapere se prendo le pillole, con le mie amiche che mi chiedono se per caso non mi è cascato l'iPhone nell'acqua con tutti i contatti dentro, con Luca che mi sopporta ma chissà fino a quando mi sopporta…
Sono state settimane in cui c'è stato poco spazio per l'intimità, persino per l'amore. Il sesso sì, c'è stato spazio per il sesso. Perché a un certo punto la fica supplica e la bocca è ingorda, i suoi testicoli sono pieni e il cazzo forse gli fa male per quanto gli tira. C'è stato spazio per quello, sì, a sfogarci. Ginnastica. Senza complicità, giochi osceni, duelli mentali. Senza quello che siamo noi, insomma. Chissà dove siamo finiti. Mi è mancato lui. Mi è mancata me stessa quando sto con lui.
Vabbè, ci penseremo. Non adesso. Non so nemmeno se mi va di uscire a cena, non saprei che dire, non saprei di che parlare, ho la testa vuota. "Vado", gli dico. "Dove?", domanda e io già gli volto le spalle. "A fare il bagno", rispondo mentre la sua mano sulla pancia mi blocca, arresta la mia uscita dal salotto. "Aspetta", mi fa. L'altra mano mi cerca il sedere e poi tra le cosce.
Reazioni? Beh, la reazione immediata è di sorpresa, di quelle che un "ma che cazz...?" descriverebbe benissimo, anche se lo penso soltanto. La seconda reazione, appena un po' più meditata, è invece un "oh, ma che ti prende?", stavolta detto ad alta voce. Davvero pensa che basti questo? Come cazzo fa, che si è messo in testa? Quanto poco mi conosce per non sapere che potrei incenerire tutto da un momento all’altro?
Eccola, è la sintesi perfetta delle ultime settimane di noi due. Perché invece dovrei saperlo perfettamente cosa gli prende, dovrei essere capace di capire al volo se sta scherzando o se fa sul serio, dovrei essere capace di sfuggirgli, se mi va di sfuggirgli, o consegnarmi se mi va di consegnarmi. Dovrei accettare, se non addirittura desiderare, che il ghiaccio nel suo bicchiere di negroni mi finisca dentro il reggiseno. In ogni caso, stando al gioco, sfidandolo a fare a gara a chi cazzeggia meglio, a vedere se sono più porca io o se è più porco lui. Ma soprattutto – sesso a parte perché la cosa più importante ora non è il sesso - dovrei essere capace di capire cosa mi sta dicendo davvero: ritorna, io sono dalla tua parte sempre e comunque, sono con te, ti sostengo, ti apprezzo, ti amo e ti desidero. Perché anche io gli manco e gli manca se stesso quando sta con me. Ecco cosa significa quella tastata di culo.
Ecco, dovrei sapere esattamente tutte queste cose. Invece, quando la sua mano mi si piazza sulle reni e cerca di scivolare dentro i pantaloni, reagisco con fastidio: "No dai, così li rompi, piantala". Ma lui non li vuole mica rompere e quindi, asola, fai ciao ciao al bottone. E, quindi, ecco la mano sinistra che si infila davanti e ecco la mano destra che si infila dietro, nelle mie culottes. Sì oggi culottes, un po’ alla brasiliana ma pur sempre culottes. Più eleganti. Come se quando le ho scelte mi aspettassi che qualcuno mi chiedesse "signorina, ci fa vedere anche le mutande?". "Ma certo, mica male, eh? E sapeste che tesoro custodiscono...". E invece adesso il mio tesoro è nelle sue mani, tra le sue dita. Quelle sinistre a cercare un altro bottoncino, quelle destre a percorrere la mia apertura.
Parla la mia voce degli ultimi giorni: "Basta, dai, voglio lavarmi, non mi va". Parla la sua voce di ogni mattina in cui mi sveglia così: "Non mi pare proprio". Il mio cervello va da una parte, il mio corpo dall'altra. E in questa separazione, in questo abbassamento delle difese, lui si infila, mi infilza. Trova ogni secondo che passa la strada più agevole. Ripete “non mi pare proprio”, il corrispettivo di tutte le volte in cui mi ha detto con sarcasmo "uh, che lago" oppure "c'hai proprio voglia, eh?". Fa parte del nostro linguaggio eccitarci facendo finta di schernirci a vicenda, un po' tipo la vecchia battuta del coniglio nei pantaloni, per quanto riguarda lui.
Per quanto riguarda invece il mio cervello non saprei, per il corpo ha ragione. Me ne accorgo dopo un po' però è vero: sono bagnata e nonostante tutto non mi dispiace. Protesto ma, progressivamente, sempre meno. Lo capisce? Certo che lo capisce, non dispiace neanche a lui che io più o meno protesti: "Zitta, femmina".
Zitta, femmina. Quando dice cose del genere gli posso rispondere con altrettanta ironia "tacerò, mio signore" oppure "vattenaffanculo, stronzetto, e sottomettiti alle mie voglie". Nel primo caso posso aprire la bocca per indicargli in che maniera deve farmi tacere, nel secondo magari mi siedo sulla sua faccia. È indifferente. Cioè, non proprio indifferente, dipende da chi dei due si sente Player 1 o Player 2. A me piace essere Player 2, di norma. Ma si cambia, eh? ogni tanto ci si alterna. Sennò sai che palle...
Stavolta però non dico proprio nulla, non mi viene. E anche se mi venisse, non ce la farei. Merito suo, certo, ma credo soprattutto della mostruosa riserva di endorfine che ho accumulato e che si sprigionano tutte insieme. Cedo, crollo proprio miseramente, come se avessi una corda che mi tiene legata e che all'improvviso si spezza, tung! Supplicare "tienimi che cado" oppure lasciarsi andare sul divano, le alternative sono queste due. Le ginocchia mi si piegano da sole e scelgono per me, scelgono il divano: arrampicarcisi sopra è una specie di scalata, appoggiare le mani al muro per evitare di sbatterci la faccia è una sofferenza. Il grilletto sedotto e abbandonato protesterà ma, scusami tanto, non ce la facevo proprio a stare in piedi. Nemmeno li sento i miei gemiti, anche se do per scontato che ci siano. Sento le sue dita che mi aprono, invece, il rumore che fanno quando sciacquano, la sua voce divertita che domanda "davvero non ti va?". Bum! La saetta. Chi cazzo vuole smettere di tremare? Saranno cazzi miei, no? Intanto tu vai avanti, continua, ne voglio un altro di orgasmo, ne voglio uno più lungo.
- Non smettere! Non smettere!
- E chi smette?
- Cazzo, che bella idea che hai avuto.
- A proposito...
No! L'horror vacui no! Dove sono finite le dita? Come stracazzo è possibile che non riesci a sbottonarti i pantaloni con la sinistra?
Ah no, non è così, è peggio di così. È il gioco sadico, è l'attesa, è San Lorenzo piazzato sulla graticola e fatto alla brace: i miei pantaloni possono essere calati più velocemente di così! le mie culottes le hai già allentate, non c'è bisogno di abbassarle piano piano! sono molto sexy le carezze sulle natiche, ma non ho bisogno di carezze sulle natiche adesso! e la mia vulva non ha bisogno di essere spennellata dall'alto in basso e dal basso in alto lungo tutto il corso del suo gonfiore.
"Amore, ti prego, sfondami e aprimi come una cozza": molto da porca. "Amore, ti prego, fottimi come una troia che non vale un cazzo": molto sottomessa. "Amore, ti prego, penetrami e dammi piacere": molto dignitosa. Temo però che più di qualcosa che assomiglia a un "gniiinnnngh!" non mi esca fuori. Vabbè, sarà per un'altra volta. Ma tanto tu non sei mica un ragazzino, no? L'hai capito quello che voglio dire, no? Non metterci un'eternità, io un'eternità non ce l'ho, lo vedi da te.
Se queste sono le tue voglie, adesso, allora queste sono le mie uniche voglie, adesso. Lo vedi da te. Questi sono i miei unici pensieri. Questo è il mio culo che sporgo all'indietro, questa è la mia vagina che hai già aperto. Puntala, entra. C'è un vuoto da riempire, e tu lo fai così bene. Accogli il mio urletto, prendilo come un invito, prendilo come una resa. Prendi possesso. Prendimi, possiedimi. Imbottiscimi e fatti sentire ovunque, fatti sentire tutto. Fatti sentire fino in fondo. Compiaciti delle mie gambe che picchiano sul divano, delle mie mani che si aggrappano al divano. Sii indulgente con le mie invocazioni: scopami, fottimi, sfondami. Sì, lo so che sono pleonastiche, che quando arrivano mi stai già scopando, mi stai già fottendo, mi stai già sfondando. Ma lasciamelo dire, lasciamelo piagnucolare, lasciamelo urlare. Sii feroce con la mia carne: voglio sentirmi dominata di più, essere dominata più forte. Afferrami le chiappe, le anche, e spingi: esci e rientra nel mio corpo. La tua vittoria sarà il mio grido squarciato, la mia supplica saranno tre parole: "è così duro". Non è una supplica a fare piano, lo sai, è una supplica a farmi quel genere di male che mi piace tanto. Puoi aggiungere del dolore supplementare, se vuoi. Quello che provocano i tuoi sculaccioni o il tuo pollice che mi si pianta nel culo mentre mi sbatti così. Lo so che ci godi, lo sai che ci godo. Fa' il cazzo che ti pare e non darmi nemmeno mezza scusa per dirti un solo no. Non voglio dire nessun no. Semmai, soffocherò i miei gemiti sul cuoio, semmai mi morderò il braccio.
Sono bastati cinque minuti, come quando arriva la tramontana a spazzare l'aria dall'inquinamento. Hai spazzato l'inquinamento dal mio cervello, mi hai posseduta e messa a posto, mi hai fatto perdere la testa ma allo stesso tempo me l’hai fatta ritrovare, hai chiarito senso e priorità, mi hai rinnovata. Quando mi volto a guardarti e ti piagnucolo "sono la tua cagna" c'è tutto questo e, beh sì, c'è anche molto di più. Quando rispondi trafelato "sei la mia cagnetta in calore" c'è molto di più. Molto di più di un immaginario porno da quattro soldi.
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