Caccia alla schiava (parte 2)
di
Kugher
genere
sadomaso
Si sedettero a tavola solo quando arrivarono anche Fabrizia con Gianni e Monica.
Le posizioni per la cena rispecchiarono quelle che sarebbero state le squadre di gioco: Enrico e Fabrizia, Marco e Anita, Gianni e Monica.
La seduta sulla gabbia ormai faceva parte delle tradizioni del gruppo e nessuno, ovviamente, se ne volle privare prima di cena.
“Da quanto tempo è in gabbia la bestia?”.
Ogni tanto, anche se non parlavano di lei, si giravano ad osservarla, traendo piacere dal quel momento conviviale in fortissimo contrasto con la cattività della giovane, sofferente per i morsetti e per la scomodità della postura.
“Abbastanza da fiaccarne la forza”.
Risero tutti.
“Scommetto che è digiuna da altrettanto tempo”.
Quella presa di coscienza servì a far gustare meglio a tutti il prossimo boccone.
“Sei scorretto, Enrico, così la lotta sarà impari e noi saremo avvantaggiati”.
“Tesori miei, la bestia è avvantaggiata dalla sua giovane età. Queste sofferenze prolungate servono solo per bilanciare le possibilità tra cacciatori e preda, altrimenti nessuno di noi avrebbe possibilità di vincerla”.
Le proteste furono più a difesa della propria età non più giovane, che per effettiva convinzione.
Nessuno, rispettando la tradizione, tenne al polso l’orologio. In quelle serate la regola prevedeva che si stesse fuori dal tempo.
Non seppero quanto durò la cena. Forse, in termini assoluti, poco tempo. Sicuramente, in termini relativi, moltissimo tempo, forse troppo.
Non parlarono della schiava in attesa, come se, ignorandola, avrebbero alimentato la tensione in lei facendola sentire un nulla.
“E’ ora di iniziare il gioco”.
Un attimo di silenzio si sparse tra il mobilio di legno e le poltrone in pelle della casa.
L’abitazione colonica per quella sera sarebbe tornata ai tempi della schiavitù, quando gli schiavi, oltre a servire, avevano anche la funzione di divertire i Padroni nei loro giochi sadici.
Enrico aprì la gabbia.
La ragazza restò immobile, quasi volesse cercare rifugio in quel ristretto spazio che, finché aveva la porta chiusa dal lucchetto, rappresentava la sua prigionia e, ora, la sua sicurezza.
Era nuda. Non le avevano lasciato nemmeno le scarpe.
Questo particolare, oltre a rendere più eccitante la caccia, avrebbe impedito a lei di correre troppo o, forse, le avrebbe procurato dolore nel tentativo di correre normalmente.
“Fuori, bestia, corri!”
Due frustate accompagnarono l’invito.
Sapeva che avrebbe avuto solo qualche minuto di vantaggio, dopodiché i Padroni, a coppie, sarebbero usciti a cercarla, muniti di fruste, manette, catene e corde, tutte cose che sarebbero state utili al momento della cattura.
Avrebbe potuto correre in tutto il parco recintato dall’alto muro pieno di rampicanti.
Aveva a disposizione le rimesse per le barche, le piccole grotte nelle rocce sul mare, i cespugli dell’ampio parco, i locali dove il giardiniere ritirava i suoi attrezzi, una vecchia stalla.
Non avrebbe potuto nascondersi in casa.
La coppia che l’avesse trovata avrebbe potuto fare di lei tutto ciò che avesse voluto e, lei sapeva, sarebbe stato doloroso.
Aveva paura e la paura eccitava i Padroni con il suo profumo indescrivibile che alimenta l’adrenalina del cacciatore.
Se nessuno l’avesse trovata entro lo spuntare del sole del giorno successivo, avrebbe vinto lei e non sarebbe più stata toccata.
La quantità di eccitazione e di adrenalina in circolo erano altissime.
La schiava non sentiva più la fame (forse non l’aveva mai sentita) né i muscoli rattrappiti per la prolungata immobilità.
Enrico l’aveva già frustata, più volte.
Non le piaceva e questo alimentava l’eccitazione del Padrone quando godeva di lei il giorno prima di ogni esame, quando la ragazza si doveva recare da lui per la notte.
Prima di farla uscire la mattina per recarsi all’università, la frustava forte sulle natiche. Gli piaceva sapere che, seduta sulla sedia dell’esaminatore, aveva addosso ancora qualche segno del divertimento di colui dal quale sarebbe dipeso un ottimo voto di laurea.
La preda cominciò a correre senza voltarsi a vedere i Padroni che, vestiti con abiti comodi, stavano sorseggiando qualcosa al termine della cena, seduti su quelle poltrone ampie in pelle sulle quali lei non aveva mai avuto modo di sedersi, sempre costretta a stare a terra, ai piedi del professore, il più delle volte incatenata e dolorante, anche per tutta la notte dopo che lui aveva goduto spruzzandole lo sperma sul viso oppure in bocca.
Non aveva mai girato per l’ampio parco che nemmeno aveva modo di ammirare nella sua bellezza in quanto quando si recava in quella casa colonica era pervasa da ben altri pensieri, soprattutto la volta in cui il Padrone le aveva anticipato l’uso della vecchia stalla.
Quella volta era stata incatenata là dentro e lasciata per un pomeriggio intero.
Venne liberata solo quando il Padrone la raggiunse e la costrinse a percorrere a 4 zampe, tirata al guinzaglio, tutta la struttura.
Nel momento di maggiore difficoltà il Professore le si era seduto sulla schiena e aveva preteso che lo portasse così, come fosse una cavalla alla quale aveva messo in bocca anche un morso collegato alle briglie.
Per scoparla l’aveva incatenata nello stallo dove l’aveva lasciata tutta la notte.
Scacciò i ricordi dei suoi usi in quella casa e corse fino a trovare un capanno.
Era riuscita ad entrare e si era nascosta dietro ad una paratia.
Il cuore aveva un battito fortissimo e le sembrava impossibile che non venisse avvertito da chiunque avesse modo di passare davanti alla struttura.
Le sembrò di sentirli arrivare. Non sapeva quanto tempo fosse passato dall’inizio del gioco.
Soprattutto non sapeva quanto mancava al sorgere del sole, sicuramente troppe ore.
La paura la portava a credere di essere visibile anche nel suo nascondiglio.
Decise di uscire e di correre ancora.
I piedi le facevano male ma l’ansia era maggiore del dolore alle piante dei piedi.
Trovò dei cespugli alti e si mise lì dentro.
Dalla sua posizione riconobbe il posto.
Lì c’erano 4 alberi ai quali era stata legata come fosse una X, gambe e braccia aperte.
Il Padrone aveva una amica, quel giorno, una donna alla quale lei non avrebbe saputo dare una età. Sapeva solo che era sadica e che si eccitava moltissimo con le ragazze legate.
Anche l’abbigliamento era da donne vecchie mentre la pelle del viso sembrava dimostrare una età più giovane rispetto ai gusti nell’abbigliamento.
Mentre era legata ad X, con la testa penzoloni, il professore e la Padrona avevano avuto accesso alla sua bellezza. La donna si era messa cavalcioni al viso ed aveva preteso che le leccasse la figa mentre lei si divertiva a torturare i capezzoli colpendoli con un elastico.
Li sentì arrivare ed ebbe la paura tipica di chi si accorge immediatamente che la sicurezza del nascondiglio era solo una speranza vana.
I cani che abbaiavano l’avrebbero trovata subito.
Non si aspettava l’uso dei cani e questo la fece sentire ancora più preda braccata, senza possibilità di sfuggire ai cacciatori
“Di là, corriamo”.
Uscì di corsa ferendosi un poco coi rovi e si mise a correre alla cieca.
Sentì d’improvviso il mare e decise di dirigersi verso la salvezza dell’acqua, dove i cani avrebbero perso le sue tracce.
Corse disperatamente.
Era buio, troppo buio.
Nessun accenno dell’aurora.
Non ce la poteva fare.
Non avrebbe potuto farcela.
Aveva paura e le sembrava di sentire il respiro eccitato dei suoi predatori.
Le posizioni per la cena rispecchiarono quelle che sarebbero state le squadre di gioco: Enrico e Fabrizia, Marco e Anita, Gianni e Monica.
La seduta sulla gabbia ormai faceva parte delle tradizioni del gruppo e nessuno, ovviamente, se ne volle privare prima di cena.
“Da quanto tempo è in gabbia la bestia?”.
Ogni tanto, anche se non parlavano di lei, si giravano ad osservarla, traendo piacere dal quel momento conviviale in fortissimo contrasto con la cattività della giovane, sofferente per i morsetti e per la scomodità della postura.
“Abbastanza da fiaccarne la forza”.
Risero tutti.
“Scommetto che è digiuna da altrettanto tempo”.
Quella presa di coscienza servì a far gustare meglio a tutti il prossimo boccone.
“Sei scorretto, Enrico, così la lotta sarà impari e noi saremo avvantaggiati”.
“Tesori miei, la bestia è avvantaggiata dalla sua giovane età. Queste sofferenze prolungate servono solo per bilanciare le possibilità tra cacciatori e preda, altrimenti nessuno di noi avrebbe possibilità di vincerla”.
Le proteste furono più a difesa della propria età non più giovane, che per effettiva convinzione.
Nessuno, rispettando la tradizione, tenne al polso l’orologio. In quelle serate la regola prevedeva che si stesse fuori dal tempo.
Non seppero quanto durò la cena. Forse, in termini assoluti, poco tempo. Sicuramente, in termini relativi, moltissimo tempo, forse troppo.
Non parlarono della schiava in attesa, come se, ignorandola, avrebbero alimentato la tensione in lei facendola sentire un nulla.
“E’ ora di iniziare il gioco”.
Un attimo di silenzio si sparse tra il mobilio di legno e le poltrone in pelle della casa.
L’abitazione colonica per quella sera sarebbe tornata ai tempi della schiavitù, quando gli schiavi, oltre a servire, avevano anche la funzione di divertire i Padroni nei loro giochi sadici.
Enrico aprì la gabbia.
La ragazza restò immobile, quasi volesse cercare rifugio in quel ristretto spazio che, finché aveva la porta chiusa dal lucchetto, rappresentava la sua prigionia e, ora, la sua sicurezza.
Era nuda. Non le avevano lasciato nemmeno le scarpe.
Questo particolare, oltre a rendere più eccitante la caccia, avrebbe impedito a lei di correre troppo o, forse, le avrebbe procurato dolore nel tentativo di correre normalmente.
“Fuori, bestia, corri!”
Due frustate accompagnarono l’invito.
Sapeva che avrebbe avuto solo qualche minuto di vantaggio, dopodiché i Padroni, a coppie, sarebbero usciti a cercarla, muniti di fruste, manette, catene e corde, tutte cose che sarebbero state utili al momento della cattura.
Avrebbe potuto correre in tutto il parco recintato dall’alto muro pieno di rampicanti.
Aveva a disposizione le rimesse per le barche, le piccole grotte nelle rocce sul mare, i cespugli dell’ampio parco, i locali dove il giardiniere ritirava i suoi attrezzi, una vecchia stalla.
Non avrebbe potuto nascondersi in casa.
La coppia che l’avesse trovata avrebbe potuto fare di lei tutto ciò che avesse voluto e, lei sapeva, sarebbe stato doloroso.
Aveva paura e la paura eccitava i Padroni con il suo profumo indescrivibile che alimenta l’adrenalina del cacciatore.
Se nessuno l’avesse trovata entro lo spuntare del sole del giorno successivo, avrebbe vinto lei e non sarebbe più stata toccata.
La quantità di eccitazione e di adrenalina in circolo erano altissime.
La schiava non sentiva più la fame (forse non l’aveva mai sentita) né i muscoli rattrappiti per la prolungata immobilità.
Enrico l’aveva già frustata, più volte.
Non le piaceva e questo alimentava l’eccitazione del Padrone quando godeva di lei il giorno prima di ogni esame, quando la ragazza si doveva recare da lui per la notte.
Prima di farla uscire la mattina per recarsi all’università, la frustava forte sulle natiche. Gli piaceva sapere che, seduta sulla sedia dell’esaminatore, aveva addosso ancora qualche segno del divertimento di colui dal quale sarebbe dipeso un ottimo voto di laurea.
La preda cominciò a correre senza voltarsi a vedere i Padroni che, vestiti con abiti comodi, stavano sorseggiando qualcosa al termine della cena, seduti su quelle poltrone ampie in pelle sulle quali lei non aveva mai avuto modo di sedersi, sempre costretta a stare a terra, ai piedi del professore, il più delle volte incatenata e dolorante, anche per tutta la notte dopo che lui aveva goduto spruzzandole lo sperma sul viso oppure in bocca.
Non aveva mai girato per l’ampio parco che nemmeno aveva modo di ammirare nella sua bellezza in quanto quando si recava in quella casa colonica era pervasa da ben altri pensieri, soprattutto la volta in cui il Padrone le aveva anticipato l’uso della vecchia stalla.
Quella volta era stata incatenata là dentro e lasciata per un pomeriggio intero.
Venne liberata solo quando il Padrone la raggiunse e la costrinse a percorrere a 4 zampe, tirata al guinzaglio, tutta la struttura.
Nel momento di maggiore difficoltà il Professore le si era seduto sulla schiena e aveva preteso che lo portasse così, come fosse una cavalla alla quale aveva messo in bocca anche un morso collegato alle briglie.
Per scoparla l’aveva incatenata nello stallo dove l’aveva lasciata tutta la notte.
Scacciò i ricordi dei suoi usi in quella casa e corse fino a trovare un capanno.
Era riuscita ad entrare e si era nascosta dietro ad una paratia.
Il cuore aveva un battito fortissimo e le sembrava impossibile che non venisse avvertito da chiunque avesse modo di passare davanti alla struttura.
Le sembrò di sentirli arrivare. Non sapeva quanto tempo fosse passato dall’inizio del gioco.
Soprattutto non sapeva quanto mancava al sorgere del sole, sicuramente troppe ore.
La paura la portava a credere di essere visibile anche nel suo nascondiglio.
Decise di uscire e di correre ancora.
I piedi le facevano male ma l’ansia era maggiore del dolore alle piante dei piedi.
Trovò dei cespugli alti e si mise lì dentro.
Dalla sua posizione riconobbe il posto.
Lì c’erano 4 alberi ai quali era stata legata come fosse una X, gambe e braccia aperte.
Il Padrone aveva una amica, quel giorno, una donna alla quale lei non avrebbe saputo dare una età. Sapeva solo che era sadica e che si eccitava moltissimo con le ragazze legate.
Anche l’abbigliamento era da donne vecchie mentre la pelle del viso sembrava dimostrare una età più giovane rispetto ai gusti nell’abbigliamento.
Mentre era legata ad X, con la testa penzoloni, il professore e la Padrona avevano avuto accesso alla sua bellezza. La donna si era messa cavalcioni al viso ed aveva preteso che le leccasse la figa mentre lei si divertiva a torturare i capezzoli colpendoli con un elastico.
Li sentì arrivare ed ebbe la paura tipica di chi si accorge immediatamente che la sicurezza del nascondiglio era solo una speranza vana.
I cani che abbaiavano l’avrebbero trovata subito.
Non si aspettava l’uso dei cani e questo la fece sentire ancora più preda braccata, senza possibilità di sfuggire ai cacciatori
“Di là, corriamo”.
Uscì di corsa ferendosi un poco coi rovi e si mise a correre alla cieca.
Sentì d’improvviso il mare e decise di dirigersi verso la salvezza dell’acqua, dove i cani avrebbero perso le sue tracce.
Corse disperatamente.
Era buio, troppo buio.
Nessun accenno dell’aurora.
Non ce la poteva fare.
Non avrebbe potuto farcela.
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