Catene
di
Vixen
genere
confessioni
Il cane era legato alla catena. Sempre, almeno per quanto mi ricordo. E la catena era a sua volta agganciata con una carrucola ad un'altra catena, sospesa, lungo la quale scorreva permettendo al cane di muoversi in un raggio abbastanza ampio, nel tragitto che separava il cancello della vetreria dall'ingresso principale.
Ma, che il cane fosse stupido oppure abitudinario, nella terra dura e grigia del cortile restavano profondamente impresse solo due tracce rettilinee, andata/ritorno, una specie di rotaia di un bizzarro filobus canino lungo il percorso «CANCELLO-PORTONE-CANCELLO».
Il cane, forse perché sempre legato alla catena o per suo caratteraccio intrinseco, era perfido e feroce. Oggi come oggi i politically correct lo definirebbero un «meticcio», ma a casa mia un cane con quell'aspetto e di quell'umore era e sarebbe sempre stato un bastardo. Di taglia medio-grande, tozzo e rincagnato sulle zampe storte, era di quel marrone nerastro tipico dei cani molto sporchi; il pelo gli si drizzava sul corpo in sparute matasse come di fil di ferro, e sul muso spariva in una chiazza rosacea e pelata, forse dovuta alla rogna o ad un incontro con un secchio d'acqua bollente.
Naturalmente abbaiava. Furiosamente, contro qualsiasi cosa spuntasse nella sua visuale, e abbaiando si avventava contro il cancello, facendo tintinnare quel suo legamento da impiccato: lungo tutto il tragitto la catena sobbalzava, fischiava e raschiava, metallo contro metallo, e alla fine si sentiva il botto. Cane-catena-cancello: il tutto cozzava facendo un casino dell'ostia mentre io, che avevo già chiuso gli occhi al primo sìbilo, morivo di paura sul marciapiede, dritta immobile a trenta centimetri dal muso della belva, la bottiglia del latte o il sacchetto del pane stretto al petto come il sacro Graal. Temevo ogni volta che, in qualche modo, la bestia ce la facesse a sganciarsi e ad agguantarmi, in un turbinare di zampe zozze e di denti bavosi. Riuscivo persino a sentire il suono dei miei innocenti ossicini che si frantumavano sotto quelle zanne, ma, paradossalmente, più ancora della presenza fisica del cane, mi spaventava il rumore della catena che mi correva incontro sferragliando, quello stridìo inumano da ingranaggio pronto a stritolarmi, tranciando trecce, gambe, braccia, sacchetto e tutto; e lì, sul cemento, al posto mio, sarebbe rimasto un macinato di bambina, buona tutt'al più come pappa per il cane.
È proprio a quel rumore che sto pensando adesso, mentre mi spieghi come e perché mi stai lasciando, e intanto continui a far scorrere quella cazzo di cerniera del tuo borsone blu (che ti ho regalato io, fra l'altro, adesso che ci penso), avanti e indietro, apri/chiudi, distrattamente, ancora e ancora. La cerniera arriva in fondo e il lucchetto sbatte contro il fermo… ting!
È possibile che non lo senti, 'sto rumore? Ma va', sei troppo compreso a controllare se nessuna delle tue preziose mutande CK manca all'appello, sei troppo assorbito a illustrarmi il perché e il percome delle tue decisioni, scuotendo i ricci castani con vago disgusto (a proposito, mi sa che sono un po' troppo lunghi, i capelli; fai il commercialista, mica il calciatore).
Spieghi, t'infervori, a tratti pure ti ci incazzi, ancora, con la cerniera che va su e giù nelle tue mani, frrr… ting!!, e quasi mi aspetto di sentirti ringhiare, alla fine, come quel cacchio di cane della mia infanzia. Sbavare no, mi sei troppo educato; e poi d'ora in poi al massimo sbaverai per la signorina Federica, quella da cui stai andando col borsone blu che ti ho comprato io, anche se presto dovrai comprarne un altro, che questo lo rompi.
Escluderei che te lo regali la signorina Federica: non è mica di quelle che fanno doni, lei. Lei al massimo li riceve, ma è anche giusto, visto che lei di anni ne ha 23, e tu 43, e 43 meno 23 fa sempre venti, che volendo è un bell'abisso da riempire di pacchetti.
Per carità, lasciamo stare il tema delle differenze di età che poi mi torni all'argomento principale, che sarei io. Cioè la traditrice, la fedifraga, insomma la stronza, la colpevole unica di questo massacro di cerniera innocente. Vrrr… ting! E via con l'accurata disamina della mia doppiezza, che poi chi l'avrebbe detto che te la prendevi tanto per un corno, e una tantum per giunta… tu che negli ultimi mesi te ne stavi sempre per conto tuo, in ufficio fino a tardi, e anzi, per dire, non è che la signorina Federica mi era già spuntata all'orizzonte? Sai com'è, visto che è la segretaria del tuo socio, va' a sapere: non è che mentre tu facevi tardi lei era già lì con le sue chiappettine/sorrisino/occhioni da ventitreenne… frrr… DING?!
Hai ragione. Non divaghiamo. Torniamo a me, a noi, e a quella cazzo di vacanza.
Che poi, se vogliamo, io non ci volevo neanche venire. Io m'ero già archiviata la mia estate senza ferie nel suo apposito cassettino mentale, c'avevo già la testa all'albero di Natale, pensa te! Ed eccoti che te ne esci con: "…Ma magari, pensavo che ti porto un po' via, che è qualche giorno che ti vedo stanca", e giù quel tuo sorriso che mi sembri tanto il Commendatore tuo padre, quel sorriso con cui distribuisce la gratifica alla servitù, il babbo.
Oh, ma ti ero riconoscente, sai? E che non lo so, che le ferie le hai sempre pagate tu, e mare e begli alberghi e colazione-in-camera e tutto, a me che in trent'anni di vita al massimo ero stata a Cervia con la mia povera mamma a far le terme. Però stavolta, boh…! Sarà stato che non ti vedevo mai, e quando ti vedevo sbuffavi come se non volessi vedermi attorno, a me 'sta vacanza già mi era partita con il piede sbagliato. Anche se Zanzibar è Zanzibar, che diamine!
È quel che mi sono ripetuta per tutti i primi quattro giorni di spiaggia-palme-sole-mare blu. Tu non c'eri mai, come previsto; vela, sub, windsurf e altri sport da maschioni, e io mi vedevo ogni giorno sempre più scomparire su uno sfondo di sciüre garrule e panterate, dedite all'inseguimento dei mariti fresco-sposi o, più banalmente, dei cazzi locali. Non dico che io non li guardassi, non tanto i cazzi in sé, ma i ragazzi che ci stavano attaccati, intendo. Ah, niente da ridire, soprattutto su «il Tommy», dizione sciüresca per l'istruttore di tiro con l'arco, abbronzatissimo, muscoloso e cortese, privo di quella familiarità falsa e ammiccante da «a te ti scopo quando voglio» che avevano parecchi suoi colleghi. Sarà stato per quello, per la gentilezza malgrado i muscoli, che l'avrò notato subito. Sarà stato per quello che è successo quel che è successo quella mattina lì. Sarà stato sicuro perché era un tipo gentile, che quello stronzo ossigenato in viaggio di nozze si è sentito in dovere di fargli una piazzata di mezz'ora sul fatto che il Tommy si era presentato con cinque minuti di ritardo ad aprire il gabbiotto dell'arco.
Magari, se Singer non fosse stato quella pizza che è, neanche avrei ascoltato. Anche se era difficile, guarda: l'ossigenato si spolmonava, con le vene tutte in tiro sul collo, che lui aveva pagato e che sul cartello c'era scritto alle nove e lui pretendeva che l'arco aprisse alle nove, anzi, per correttezza, a sentir lui, il Tommy doveva aprir prima, esser disponibile già dalle otto e mezza, e che se fra i suoi simili non si usava così, beh, che si adeguasse, e altre cazzate così.
Il Tommy lo guardava in faccia, calmo. E non parlava. Sicché, come spesso succede, lo stronzo si era incazzato ancora di più e aveva dato fondo a un discreto repertorio di insulti e luoghi comuni sugli animatori dei villaggi, e io non ci avevo più visto. E così, mentre l'ossigenato faceva una pausa per riprendere il fiato, io bella nascosta dietro il mio «Ombre sull'Hudson» avevo fatto partire un: "Ma mücchela lì, coglione!" trillante e sonoro che nemmeno quando cantavo nel coro la domenica. Alcune sciüre avevano riso forte, l'ossigenato aveva ingoiato rabbia e brandelli di coronarie, e la cosa era finita lì. Ma quando dopo un po' avevo osato alzare gli occhi dal libro ci avevo trovato Tommy che mi faceva un gran sorriso e un «OK» col pollice alzato, e poi tornava a lavorare.
Insomma, anche se ci fossi stato, nemmeno tu ci avresti trovato niente da ridire su quel che avevo fatto, al massimo ci avresti riso un po' su, scuotendo i tuoi bei boccoli con commiserazione per la mia… com'è che la chiami? …Ah sì, «difesa a oltranza delle cause perse», anche se non mi sentivo per niente la madamina in difesa delle minoranze. Non avresti trovato niente da ridire neanche sui sorrisi a trentadue denti che mi aveva fatto il Tommy da allora in poi ogni volta che mi incontrava, tanto sorridere è il suo mestiere… e poi sorrideva a tutte, no?!
Forse, ma dico forse, ti sarebbero piaciute un po' meno due o tre ideuzze che mi erano balenate in un angolo del cervello durante il pisolino del pomeriggio, lì, sotto la zanzariera che confondeva la stanza in una grigia nebbiolina e il freddo a ondate del ventilatore, che mi sciabolava le gambe sudate. Quando te ne stai lì sull'orlo del sonno, sai com'è, l'inconscio piglia il «Super Io» a mazzate, e ti passano per la testa robe strane. E in quelle che venivano in mente a me non c'era gente pallida, a parte me. E neanche un commercialista coi riccioli, tanto per chiarire.
Insomma, stavo lì attorcigliata nel lenzuolo, e mi strisciavano nel cervello e su per la pancia certe idee di carezze lentissime e bollenti, che mi risalivano le ginocchia e poi le cosce, di mani gentili e sudate che mi scostavano i capelli e mi aprivano le gambe. Il ventilatore faceva a fette l'aria sopra al letto e io mi ascoltavo respirare, ma nella mia testa trattenevo il fiato per via di una certa bocca morbida che mi risucchiava prima le labbra e la lingua, poi la gola, mi sentivo sospirare e poi decisamente ansimare quando la stessa bocca mi arrivava fra le cosce a baciare, leccare, mordere, aprirmi la figa e riempirmi di fiato caldo e lingua e saliva, e poi di dita a tagliarmi di nuovo il fiato.
Guardavo fra la gabbia delle ciglia quella stanza nebbiosa, e mi osservavo percorrere muscoli lucidi e bronzei prima con le mani e poi con la lingua, vedevo la mia mano chiudersi su un cazzo meravigliosamente alieno e terribilmente duro. E accarezzarlo con dolcezza, prima di infilarmelo in bocca. A volte mi ascoltavo leccare e succhiare, altre pregare che mi scopasse, o lui promettermi di farlo.
A volte riuscivo persino a sentirlo, il suo torace caldo e liscio, strusciarmi le tette, la presa delle sue mani sui fianchi ad agganciarmi al suo cazzo, a sentire la sua lingua scoparmi la bocca mentre non smetteva, non smetteva mai di fottermi, in fondo, duro e lento come mi è sempre piaciuto, e come tu non hai mai fatto. Quelle volte finiva che godevo, una mano sulla bocca e l'altra fra le cosce, gli occhi stretti fino a farmi colare una lacrima sulla guancia. Dormivo così bene, dopo.
Ma erano fantasie, alla fine, e chi non ne ha mai fatte? Fantasie indefinite, senza nomi né cognomi, roba futile e inconsistente, che mai e poi mai avrei messo in pratica, se… se questi minchia di pesci tu, oltre che guardarli di giorno, non avessi dovuto anche andarli a vedere di notte. Se tu, alle mie timide proteste, avessi risposto normalmente, o anche, chessò, prendendomi in giro, o incazzandoti, va'. Ma non con quello sguardo condiscendente, con quel tono per bambine deficienti, anzi, per domestiche un po' tarde che è il caso di rimettere al loro posto.
"Insomma, Delia, non ti ci mettere come al solito a rovinarmi la festa. Lo sapevi, no, che sono venuto per il mare e per il diving, e quindi dài, non stressarmi. Capirai, per una serata che ti lascio da sola…". Appunto. Messaggio ricevuto. Fare la brava e non stressare. Cioè ciondolare un po' in spiaggia, fare una lunghissima doccia, cenare circondata da coppie in viaggio di nozze, in un tintinnare di brindisi e un luccicare di fedi nuove di pacca. Fare la brava e sedersi sull'angolo di un karaoke, un po' ascoltando ma più no, e all'improvviso sentirsi sulle spalle un peso greve e metallico, come di catene. Che poi mica sono tanto le catene, che pesano.
No, è più tutto quello che ci sta attaccato, che pende, la mia vita di prima con le terme a Cervia e i brodini col dado a fine mese, e quella di adesso con le palme, il diving, la signorina Federica e magari in futuro qualche altra signorina o qualche altro tuo passatempo ancora più impegnativo e assorbente, che riduca al minimo le occasioni di vedersi e di parlarsi. Quel che pesa di più è l'entusiasmo con cui mi vedo correre incontro all'abitudine, e cosa importa se dando altri due giri di catena mi si accorcerà il fiato. Basta non aver più voglia di correre. O anche solo di andare da qualche altra parte.
Che ti devo dire, quella sera lì ho sentito che mi pesavano un sacco, le catene che mi ero buttata sulle spalle. Che mi pesavano troppo. Sarà mica colpa mia se lui, il Tommy, era lì quando ho alzato gli occhi. È tanto piccolo, 'sto cazzo di villaggio esclusivo, che sono sempre tutti lì fra i piedi.
Forse è stata un po' colpa mia, invece, se quando lui ha teso la mano, e me l'ha poggiata alla nuca, sotto i capelli, non mi sono scostata.
Faceva caldo, quella sera, un caldo pesante e colloso, ed ero sudata, sotto i capelli, sul collo. E la sua mano era calda, caldissima. Ma non mi sono scostata. Forse perché lui non ha fatto nient'altro, non mi ha sorriso, non mi ha parlato, è rimasto lì, le dita che si muovevano appena sul collo, a tempo con la neosposa bresciana che massacrava Ligabue. E senza parlare è scivolato via, dopo. Già, c'aveva lo spettacolo.
Così ci sono andata a vederlo, lo spettacolo. Tanto tu non tornavi, e io avevo sempre quel gran peso sulle spalle assieme a una gran voglia di scrollarmelo di dosso. E di ridere, e fare la scema, forse, seduta in prima fila a guardare i ragazzi dello staff fare lo strip tipo California Dream Men, e urlare e fischiare come se ci avessi avuto vent'anni, ammesso che a vent'anni avessi mai fatto robe simili, io.
Guardare gli uomini in mutande, figuriamoci. E restar lì basita mentre il Tommy scende dal palco, in mutande appunto, addominali bicipiti sudore e pacco in vista e tutto, e viene a baciarmi sulla guancia, anzi sotto l'orecchio, facendomi il solletico, davanti a tutti, fra i fischi e le urla delle altre ventenni di ritorno.
È stato tutto facile, dopo. Aspettarlo alla fine dello spettacolo, e seguirlo verso la sua stanza. Appoggiarmi al muro ruvido e umido, e cercare di vedergli gli occhi, nella penombra verde del giardino. Mi ha baciata subito, labbra attorno alle mie e la sua lingua in bocca. Rispondere è stato facile. Facile e leggero, come respirare, la testa vuota di tutto, anche e soprattutto del pensiero di te che ormai eri tornato, di sicuro, e mi stavi cercando.
Anzi, lo sai? Ho preso l'iniziativa io, persino. Mi ci sono strusciata contro, mentre mi baciava, e il vestito mi risaliva lungo la coscia, la mia e la sua, e si arrotolava in un grumo sudaticcio fino ad arrivare in vita, quasi. Il muro mi raschiava la schiena, e i suoi muscoli mi scivolavano contro le cosce e la pancia, come una carezza dura. Lui mi stava addosso, mi prendeva la faccia tra le mani, infilandole di nuovo sotto i capelli, mi baciava con calma, spingendomi la testa contro la sua, la lingua in bocca, e io, che aprissi gli occhi o li tenessi chiusi, sentivo solo schiacciarmi contro il muro e infilarmi la lingua in bocca, respiro caldo e profumato in faccia.
Anche se tutto restava fisico e concreto, altroché. Le sue dita intorno al collo, il suo peso addosso, la mie dita a cercare nei suoi pantaloncini verde prato, il suo cazzo nella mia mano, per un attimo. Duro, eccome no. E vellutato, e bollente… e niente di eccezionalmente grosso, se proprio lo vuoi sapere. La sua lingua sulla faccia, dietro l'orecchio, nel collo, a leccarmi via il sudore.
È stato facile. Anche alzare un ginocchio, agganciare una gamba attorno alla sua vita e infilarmi dentro il suo cazzo; contro un muro, il vestito arricciato dietro la schiena, per niente comoda. Ma non potevo mica aspettare, no. Mi è scivolato dentro in un attimo, ero fradicia, e come è stato dentro si è fermato, mi ha sollevata, tenendomi lì in piedi, assestata contro di lui con naturalezza, come se non pesassi niente, e solo dopo ha iniziato a spingere, a scoparmi.
Mi sono appoggiata con la faccia alla sua spalla, nella maglietta zuppa, avvinghiata a lui come al palo della cuccagna. Ad ogni colpo gli ricadevo addosso, il fiato mi usciva in un suono buffo contro la sua gola; ha girato la testa, e ha ripreso a baciarmi, e là tutta la voglia che avevo mi è scoppiata dentro in un orgasmo rapido, violento.
Camera sua era un cubicolo soffocante, con solo una finestrella quadrata annegata fra le foglie. C'erano due letti, ma non mi sono neanche chiesta chi dormisse con lui, o dove fosse. Mi sono seduta su un letto, e l'ho lasciato togliermi il vestito dalla testa; l'ho guardato inginocchiarsi fra le mie cosce, e anche così era più alto di me di un bel po'. Ho scalciato le infradito, mi sono sdraiata all'indietro, ho girato la faccia contro il lenzuolo; avevo ancora il fiato corto, come se avessi corso, il cuore mi sbatteva stonato contro le costole. Non sapevo cosa dire, così sono stata zitta. Ho ascoltato. Rumori morbidi, stoffa e il suo respiro, il cigolìo delle molle del letto, mentre si sdraiava su un fianco. Ho teso una mano, Tommy l'ha presa e mi ha baciato il palmo, poi ha chiuso le dita intorno al bacio, e si è appoggiato la mia mano chiusa al suo petto. Anche il suo, di cuore, sbatteva mica male. Ho fatto scivolare le dita sul suo torace, l'ho graffiato piano con le unghie, sulle spalle, lungo le braccia.
Mi sono seduta in braccio a lui, ho sentito le sue mani sulla schiena, intorno ai fianchi, poi è risalito e mi ha abbracciato le tette, si è sollevato per baciarmele, i suoi capelli che mi solleticavano il mento. Ha preso i miei seni in bocca uno per uno, prima piano, e poi con voglia, quasi con fretta, succhiando forte, serrandoli fra le mani… e ho sentito una gran voglia tornarmi su; l'ho tirato indietro per i capelli e gli ho infilato la lingua in bocca, senza respirare. Ho sentito il suo cazzo ritornare duro contro la mia coscia, così ho smesso di baciarlo per prenderglielo in bocca.
Non c'è bisogno che me lo dici, che con te non l'ho mai fatto: lo so. Quando per una sera smetti di portare una catena sulle spalle, t'avanza il fiato per farne, di cose.
Come assaggiare il mio sapore sul suo cazzo, leccarlo dolcemente, percorrerlo tutto, piano, anche con i denti, e poi tenendolo fra le dita infilarselo in bocca, continuando ad accarezzarlo con la mano e la lingua, finché tutta quella carne dura ti riempie, ti toglie il respiro.
Gli sono scivolata addosso, senza guardare… devo avergli dato anche una ginocchiata nel naso nel muovermi, ma lui eroico non ha parlato, si è solo sistemato meglio fra le mie cosce, e mi sono resa conto che, con la finestra alle sue spalle, l'unica cosa illuminata nella stanza era la mia figa davanti alla sua bocca. Ma l'idea mi piaceva, già. Mi eccitava da morire, ad essere sincera.
Non scomodarti a ricordarmi che con te non ho mai fatto manco un sessantanove, lo so. Ma mai stata meglio che in quel momento, il suo cazzo infilato in bocca e la mia figa accarezzata dalla sua lingua, dalle sue dita. Mi apriva dolcemente, restava a respirarmi fra le pieghe umide e gonfie, mi leccava piano, esplorandomi tutta, e poi si fermava, facendomi diventare matta; allora per ripicca smettevo anch'io, mi sollevavo su un gomito, polemica, e lo sentivo ridere contro la mia figa, e poi riprendere a baciarmi, a penetrarmi con la lingua e le dita, una, due, le avvertivo bene, dentro, mobili e dure, scivolare e fermarsi, allargare e spingere, e a un certo punto per il piacere il suo cazzo mi sfuggiva di nuovo dalla bocca, fradicio e pesante sulla mano.
Restavo a guardarlo inebetita, mentre godevo di nuovo, una cosa lunga e tremante, profonda, quasi dolorosa.
Gli sono quasi crollata addosso, dopo. Mi sentivo ubriaca, ma ubriaca bene, non come capita a me di solito che mi monta su la carogna e piango tutta la sera. Sbronza da sangue, non da alcool. Con la testa vuota e ronzante di caldo e nuovo. Pigra.
Così l'ho lasciato fare; l'ho lasciato scivolarmi da sotto, girarmi a pancia in su, infilarsi in mezzo alle mie cosce aperte. Con lui davanti alla finestra, così imponente e fusto, il buio nella stanza si era fatto quasi spesso, e vagamente soffocante. Ho chiuso gli occhi, e l'ho sentito accarezzarmi tutta, e poi sdraiarsi su di me, cercarmi la figa con le dita e ritornarmi dentro, in una lunga spinta. Mi ha stretto i polsi, tutti e due con una mano sola, dietro la testa. Così ho dovuto puntellarmi con i talloni, per spingermi incontro a lui, per sentirlo affondare dentro, le braccia tirate in alto ad ogni colpo.
Mi guardava, sopra di me, poi si chianava a baciarmi, senza smettere di spingere, di stringere. La stanza era piena del nostro odore e dei nostri respiri, sgraziati e rumorosi… lui mi stava addosso, schiacciandomi contro il suo torace largo e sudato, mi riempiva a ondate, io avevo solo voglia di godere un'altra volta, di venire tutto intorno al suo cazzo, di sciogliermi e non pensare a niente, a niente, a niente a parte quel suo glorioso cazzo che mi arrivava fino in fondo.
A un certo punto mi ha preso il mento con l'altra mano, ha sussurrato qualcosa che non ho capito, e mi è venuto dentro stringendomi i polsi fino a farmi male, respirando forte in fondo alla gola, come un animale.
Quando ha finito mi ha baciato, ancora, senza uscire da me, anzi come se avesse fame di nuovo, scopandomi la bocca con la lingua che mi sbatteva contro i denti; è stato quello a farmi godere un'altra volta, di un piacere breve e intenso, inaspettato, che mi ha svuotato la testa di tutto. Anche delle scuse che avrei dovuto inventare tornando in camera da te, sudata, rossa e col fiatone, la sborra di lui che ancora mi appiccicava le cosce e il vestito a fiori.
Hai guardato più il mio vestito che me, a pensarci, quella notte. Che straccio doveva sembrarti, mentre continuavi a chiedere. Non "…Cos'hai fatto, dove sei stata". Ma "…Chi è". Chi è, mi hai chiesto un sacco di volte. Eri così ridicolo, sapessi, tutte le luci accese e il tono inquisitore. E io avevo la testa vuota di possibili risposte che non fossero la verità. Ma mica te l'ho detto, chi era.
Cos'era successo sì, invece, e anche come, con tutti i particolari.
Più parlavo, più mi sentivo bene; così come mi sento bene adesso, in piedi sulla porta di casa mia, che ti guardo scendere le scale, quasi di corsa, il borsone blu appeso a un braccio. Il lucchetto, sbattendo contro la ringhiera, fa uno strano rumore…
Ma, che il cane fosse stupido oppure abitudinario, nella terra dura e grigia del cortile restavano profondamente impresse solo due tracce rettilinee, andata/ritorno, una specie di rotaia di un bizzarro filobus canino lungo il percorso «CANCELLO-PORTONE-CANCELLO».
Il cane, forse perché sempre legato alla catena o per suo caratteraccio intrinseco, era perfido e feroce. Oggi come oggi i politically correct lo definirebbero un «meticcio», ma a casa mia un cane con quell'aspetto e di quell'umore era e sarebbe sempre stato un bastardo. Di taglia medio-grande, tozzo e rincagnato sulle zampe storte, era di quel marrone nerastro tipico dei cani molto sporchi; il pelo gli si drizzava sul corpo in sparute matasse come di fil di ferro, e sul muso spariva in una chiazza rosacea e pelata, forse dovuta alla rogna o ad un incontro con un secchio d'acqua bollente.
Naturalmente abbaiava. Furiosamente, contro qualsiasi cosa spuntasse nella sua visuale, e abbaiando si avventava contro il cancello, facendo tintinnare quel suo legamento da impiccato: lungo tutto il tragitto la catena sobbalzava, fischiava e raschiava, metallo contro metallo, e alla fine si sentiva il botto. Cane-catena-cancello: il tutto cozzava facendo un casino dell'ostia mentre io, che avevo già chiuso gli occhi al primo sìbilo, morivo di paura sul marciapiede, dritta immobile a trenta centimetri dal muso della belva, la bottiglia del latte o il sacchetto del pane stretto al petto come il sacro Graal. Temevo ogni volta che, in qualche modo, la bestia ce la facesse a sganciarsi e ad agguantarmi, in un turbinare di zampe zozze e di denti bavosi. Riuscivo persino a sentire il suono dei miei innocenti ossicini che si frantumavano sotto quelle zanne, ma, paradossalmente, più ancora della presenza fisica del cane, mi spaventava il rumore della catena che mi correva incontro sferragliando, quello stridìo inumano da ingranaggio pronto a stritolarmi, tranciando trecce, gambe, braccia, sacchetto e tutto; e lì, sul cemento, al posto mio, sarebbe rimasto un macinato di bambina, buona tutt'al più come pappa per il cane.
È proprio a quel rumore che sto pensando adesso, mentre mi spieghi come e perché mi stai lasciando, e intanto continui a far scorrere quella cazzo di cerniera del tuo borsone blu (che ti ho regalato io, fra l'altro, adesso che ci penso), avanti e indietro, apri/chiudi, distrattamente, ancora e ancora. La cerniera arriva in fondo e il lucchetto sbatte contro il fermo… ting!
È possibile che non lo senti, 'sto rumore? Ma va', sei troppo compreso a controllare se nessuna delle tue preziose mutande CK manca all'appello, sei troppo assorbito a illustrarmi il perché e il percome delle tue decisioni, scuotendo i ricci castani con vago disgusto (a proposito, mi sa che sono un po' troppo lunghi, i capelli; fai il commercialista, mica il calciatore).
Spieghi, t'infervori, a tratti pure ti ci incazzi, ancora, con la cerniera che va su e giù nelle tue mani, frrr… ting!!, e quasi mi aspetto di sentirti ringhiare, alla fine, come quel cacchio di cane della mia infanzia. Sbavare no, mi sei troppo educato; e poi d'ora in poi al massimo sbaverai per la signorina Federica, quella da cui stai andando col borsone blu che ti ho comprato io, anche se presto dovrai comprarne un altro, che questo lo rompi.
Escluderei che te lo regali la signorina Federica: non è mica di quelle che fanno doni, lei. Lei al massimo li riceve, ma è anche giusto, visto che lei di anni ne ha 23, e tu 43, e 43 meno 23 fa sempre venti, che volendo è un bell'abisso da riempire di pacchetti.
Per carità, lasciamo stare il tema delle differenze di età che poi mi torni all'argomento principale, che sarei io. Cioè la traditrice, la fedifraga, insomma la stronza, la colpevole unica di questo massacro di cerniera innocente. Vrrr… ting! E via con l'accurata disamina della mia doppiezza, che poi chi l'avrebbe detto che te la prendevi tanto per un corno, e una tantum per giunta… tu che negli ultimi mesi te ne stavi sempre per conto tuo, in ufficio fino a tardi, e anzi, per dire, non è che la signorina Federica mi era già spuntata all'orizzonte? Sai com'è, visto che è la segretaria del tuo socio, va' a sapere: non è che mentre tu facevi tardi lei era già lì con le sue chiappettine/sorrisino/occhioni da ventitreenne… frrr… DING?!
Hai ragione. Non divaghiamo. Torniamo a me, a noi, e a quella cazzo di vacanza.
Che poi, se vogliamo, io non ci volevo neanche venire. Io m'ero già archiviata la mia estate senza ferie nel suo apposito cassettino mentale, c'avevo già la testa all'albero di Natale, pensa te! Ed eccoti che te ne esci con: "…Ma magari, pensavo che ti porto un po' via, che è qualche giorno che ti vedo stanca", e giù quel tuo sorriso che mi sembri tanto il Commendatore tuo padre, quel sorriso con cui distribuisce la gratifica alla servitù, il babbo.
Oh, ma ti ero riconoscente, sai? E che non lo so, che le ferie le hai sempre pagate tu, e mare e begli alberghi e colazione-in-camera e tutto, a me che in trent'anni di vita al massimo ero stata a Cervia con la mia povera mamma a far le terme. Però stavolta, boh…! Sarà stato che non ti vedevo mai, e quando ti vedevo sbuffavi come se non volessi vedermi attorno, a me 'sta vacanza già mi era partita con il piede sbagliato. Anche se Zanzibar è Zanzibar, che diamine!
È quel che mi sono ripetuta per tutti i primi quattro giorni di spiaggia-palme-sole-mare blu. Tu non c'eri mai, come previsto; vela, sub, windsurf e altri sport da maschioni, e io mi vedevo ogni giorno sempre più scomparire su uno sfondo di sciüre garrule e panterate, dedite all'inseguimento dei mariti fresco-sposi o, più banalmente, dei cazzi locali. Non dico che io non li guardassi, non tanto i cazzi in sé, ma i ragazzi che ci stavano attaccati, intendo. Ah, niente da ridire, soprattutto su «il Tommy», dizione sciüresca per l'istruttore di tiro con l'arco, abbronzatissimo, muscoloso e cortese, privo di quella familiarità falsa e ammiccante da «a te ti scopo quando voglio» che avevano parecchi suoi colleghi. Sarà stato per quello, per la gentilezza malgrado i muscoli, che l'avrò notato subito. Sarà stato per quello che è successo quel che è successo quella mattina lì. Sarà stato sicuro perché era un tipo gentile, che quello stronzo ossigenato in viaggio di nozze si è sentito in dovere di fargli una piazzata di mezz'ora sul fatto che il Tommy si era presentato con cinque minuti di ritardo ad aprire il gabbiotto dell'arco.
Magari, se Singer non fosse stato quella pizza che è, neanche avrei ascoltato. Anche se era difficile, guarda: l'ossigenato si spolmonava, con le vene tutte in tiro sul collo, che lui aveva pagato e che sul cartello c'era scritto alle nove e lui pretendeva che l'arco aprisse alle nove, anzi, per correttezza, a sentir lui, il Tommy doveva aprir prima, esser disponibile già dalle otto e mezza, e che se fra i suoi simili non si usava così, beh, che si adeguasse, e altre cazzate così.
Il Tommy lo guardava in faccia, calmo. E non parlava. Sicché, come spesso succede, lo stronzo si era incazzato ancora di più e aveva dato fondo a un discreto repertorio di insulti e luoghi comuni sugli animatori dei villaggi, e io non ci avevo più visto. E così, mentre l'ossigenato faceva una pausa per riprendere il fiato, io bella nascosta dietro il mio «Ombre sull'Hudson» avevo fatto partire un: "Ma mücchela lì, coglione!" trillante e sonoro che nemmeno quando cantavo nel coro la domenica. Alcune sciüre avevano riso forte, l'ossigenato aveva ingoiato rabbia e brandelli di coronarie, e la cosa era finita lì. Ma quando dopo un po' avevo osato alzare gli occhi dal libro ci avevo trovato Tommy che mi faceva un gran sorriso e un «OK» col pollice alzato, e poi tornava a lavorare.
Insomma, anche se ci fossi stato, nemmeno tu ci avresti trovato niente da ridire su quel che avevo fatto, al massimo ci avresti riso un po' su, scuotendo i tuoi bei boccoli con commiserazione per la mia… com'è che la chiami? …Ah sì, «difesa a oltranza delle cause perse», anche se non mi sentivo per niente la madamina in difesa delle minoranze. Non avresti trovato niente da ridire neanche sui sorrisi a trentadue denti che mi aveva fatto il Tommy da allora in poi ogni volta che mi incontrava, tanto sorridere è il suo mestiere… e poi sorrideva a tutte, no?!
Forse, ma dico forse, ti sarebbero piaciute un po' meno due o tre ideuzze che mi erano balenate in un angolo del cervello durante il pisolino del pomeriggio, lì, sotto la zanzariera che confondeva la stanza in una grigia nebbiolina e il freddo a ondate del ventilatore, che mi sciabolava le gambe sudate. Quando te ne stai lì sull'orlo del sonno, sai com'è, l'inconscio piglia il «Super Io» a mazzate, e ti passano per la testa robe strane. E in quelle che venivano in mente a me non c'era gente pallida, a parte me. E neanche un commercialista coi riccioli, tanto per chiarire.
Insomma, stavo lì attorcigliata nel lenzuolo, e mi strisciavano nel cervello e su per la pancia certe idee di carezze lentissime e bollenti, che mi risalivano le ginocchia e poi le cosce, di mani gentili e sudate che mi scostavano i capelli e mi aprivano le gambe. Il ventilatore faceva a fette l'aria sopra al letto e io mi ascoltavo respirare, ma nella mia testa trattenevo il fiato per via di una certa bocca morbida che mi risucchiava prima le labbra e la lingua, poi la gola, mi sentivo sospirare e poi decisamente ansimare quando la stessa bocca mi arrivava fra le cosce a baciare, leccare, mordere, aprirmi la figa e riempirmi di fiato caldo e lingua e saliva, e poi di dita a tagliarmi di nuovo il fiato.
Guardavo fra la gabbia delle ciglia quella stanza nebbiosa, e mi osservavo percorrere muscoli lucidi e bronzei prima con le mani e poi con la lingua, vedevo la mia mano chiudersi su un cazzo meravigliosamente alieno e terribilmente duro. E accarezzarlo con dolcezza, prima di infilarmelo in bocca. A volte mi ascoltavo leccare e succhiare, altre pregare che mi scopasse, o lui promettermi di farlo.
A volte riuscivo persino a sentirlo, il suo torace caldo e liscio, strusciarmi le tette, la presa delle sue mani sui fianchi ad agganciarmi al suo cazzo, a sentire la sua lingua scoparmi la bocca mentre non smetteva, non smetteva mai di fottermi, in fondo, duro e lento come mi è sempre piaciuto, e come tu non hai mai fatto. Quelle volte finiva che godevo, una mano sulla bocca e l'altra fra le cosce, gli occhi stretti fino a farmi colare una lacrima sulla guancia. Dormivo così bene, dopo.
Ma erano fantasie, alla fine, e chi non ne ha mai fatte? Fantasie indefinite, senza nomi né cognomi, roba futile e inconsistente, che mai e poi mai avrei messo in pratica, se… se questi minchia di pesci tu, oltre che guardarli di giorno, non avessi dovuto anche andarli a vedere di notte. Se tu, alle mie timide proteste, avessi risposto normalmente, o anche, chessò, prendendomi in giro, o incazzandoti, va'. Ma non con quello sguardo condiscendente, con quel tono per bambine deficienti, anzi, per domestiche un po' tarde che è il caso di rimettere al loro posto.
"Insomma, Delia, non ti ci mettere come al solito a rovinarmi la festa. Lo sapevi, no, che sono venuto per il mare e per il diving, e quindi dài, non stressarmi. Capirai, per una serata che ti lascio da sola…". Appunto. Messaggio ricevuto. Fare la brava e non stressare. Cioè ciondolare un po' in spiaggia, fare una lunghissima doccia, cenare circondata da coppie in viaggio di nozze, in un tintinnare di brindisi e un luccicare di fedi nuove di pacca. Fare la brava e sedersi sull'angolo di un karaoke, un po' ascoltando ma più no, e all'improvviso sentirsi sulle spalle un peso greve e metallico, come di catene. Che poi mica sono tanto le catene, che pesano.
No, è più tutto quello che ci sta attaccato, che pende, la mia vita di prima con le terme a Cervia e i brodini col dado a fine mese, e quella di adesso con le palme, il diving, la signorina Federica e magari in futuro qualche altra signorina o qualche altro tuo passatempo ancora più impegnativo e assorbente, che riduca al minimo le occasioni di vedersi e di parlarsi. Quel che pesa di più è l'entusiasmo con cui mi vedo correre incontro all'abitudine, e cosa importa se dando altri due giri di catena mi si accorcerà il fiato. Basta non aver più voglia di correre. O anche solo di andare da qualche altra parte.
Che ti devo dire, quella sera lì ho sentito che mi pesavano un sacco, le catene che mi ero buttata sulle spalle. Che mi pesavano troppo. Sarà mica colpa mia se lui, il Tommy, era lì quando ho alzato gli occhi. È tanto piccolo, 'sto cazzo di villaggio esclusivo, che sono sempre tutti lì fra i piedi.
Forse è stata un po' colpa mia, invece, se quando lui ha teso la mano, e me l'ha poggiata alla nuca, sotto i capelli, non mi sono scostata.
Faceva caldo, quella sera, un caldo pesante e colloso, ed ero sudata, sotto i capelli, sul collo. E la sua mano era calda, caldissima. Ma non mi sono scostata. Forse perché lui non ha fatto nient'altro, non mi ha sorriso, non mi ha parlato, è rimasto lì, le dita che si muovevano appena sul collo, a tempo con la neosposa bresciana che massacrava Ligabue. E senza parlare è scivolato via, dopo. Già, c'aveva lo spettacolo.
Così ci sono andata a vederlo, lo spettacolo. Tanto tu non tornavi, e io avevo sempre quel gran peso sulle spalle assieme a una gran voglia di scrollarmelo di dosso. E di ridere, e fare la scema, forse, seduta in prima fila a guardare i ragazzi dello staff fare lo strip tipo California Dream Men, e urlare e fischiare come se ci avessi avuto vent'anni, ammesso che a vent'anni avessi mai fatto robe simili, io.
Guardare gli uomini in mutande, figuriamoci. E restar lì basita mentre il Tommy scende dal palco, in mutande appunto, addominali bicipiti sudore e pacco in vista e tutto, e viene a baciarmi sulla guancia, anzi sotto l'orecchio, facendomi il solletico, davanti a tutti, fra i fischi e le urla delle altre ventenni di ritorno.
È stato tutto facile, dopo. Aspettarlo alla fine dello spettacolo, e seguirlo verso la sua stanza. Appoggiarmi al muro ruvido e umido, e cercare di vedergli gli occhi, nella penombra verde del giardino. Mi ha baciata subito, labbra attorno alle mie e la sua lingua in bocca. Rispondere è stato facile. Facile e leggero, come respirare, la testa vuota di tutto, anche e soprattutto del pensiero di te che ormai eri tornato, di sicuro, e mi stavi cercando.
Anzi, lo sai? Ho preso l'iniziativa io, persino. Mi ci sono strusciata contro, mentre mi baciava, e il vestito mi risaliva lungo la coscia, la mia e la sua, e si arrotolava in un grumo sudaticcio fino ad arrivare in vita, quasi. Il muro mi raschiava la schiena, e i suoi muscoli mi scivolavano contro le cosce e la pancia, come una carezza dura. Lui mi stava addosso, mi prendeva la faccia tra le mani, infilandole di nuovo sotto i capelli, mi baciava con calma, spingendomi la testa contro la sua, la lingua in bocca, e io, che aprissi gli occhi o li tenessi chiusi, sentivo solo schiacciarmi contro il muro e infilarmi la lingua in bocca, respiro caldo e profumato in faccia.
Anche se tutto restava fisico e concreto, altroché. Le sue dita intorno al collo, il suo peso addosso, la mie dita a cercare nei suoi pantaloncini verde prato, il suo cazzo nella mia mano, per un attimo. Duro, eccome no. E vellutato, e bollente… e niente di eccezionalmente grosso, se proprio lo vuoi sapere. La sua lingua sulla faccia, dietro l'orecchio, nel collo, a leccarmi via il sudore.
È stato facile. Anche alzare un ginocchio, agganciare una gamba attorno alla sua vita e infilarmi dentro il suo cazzo; contro un muro, il vestito arricciato dietro la schiena, per niente comoda. Ma non potevo mica aspettare, no. Mi è scivolato dentro in un attimo, ero fradicia, e come è stato dentro si è fermato, mi ha sollevata, tenendomi lì in piedi, assestata contro di lui con naturalezza, come se non pesassi niente, e solo dopo ha iniziato a spingere, a scoparmi.
Mi sono appoggiata con la faccia alla sua spalla, nella maglietta zuppa, avvinghiata a lui come al palo della cuccagna. Ad ogni colpo gli ricadevo addosso, il fiato mi usciva in un suono buffo contro la sua gola; ha girato la testa, e ha ripreso a baciarmi, e là tutta la voglia che avevo mi è scoppiata dentro in un orgasmo rapido, violento.
Camera sua era un cubicolo soffocante, con solo una finestrella quadrata annegata fra le foglie. C'erano due letti, ma non mi sono neanche chiesta chi dormisse con lui, o dove fosse. Mi sono seduta su un letto, e l'ho lasciato togliermi il vestito dalla testa; l'ho guardato inginocchiarsi fra le mie cosce, e anche così era più alto di me di un bel po'. Ho scalciato le infradito, mi sono sdraiata all'indietro, ho girato la faccia contro il lenzuolo; avevo ancora il fiato corto, come se avessi corso, il cuore mi sbatteva stonato contro le costole. Non sapevo cosa dire, così sono stata zitta. Ho ascoltato. Rumori morbidi, stoffa e il suo respiro, il cigolìo delle molle del letto, mentre si sdraiava su un fianco. Ho teso una mano, Tommy l'ha presa e mi ha baciato il palmo, poi ha chiuso le dita intorno al bacio, e si è appoggiato la mia mano chiusa al suo petto. Anche il suo, di cuore, sbatteva mica male. Ho fatto scivolare le dita sul suo torace, l'ho graffiato piano con le unghie, sulle spalle, lungo le braccia.
Mi sono seduta in braccio a lui, ho sentito le sue mani sulla schiena, intorno ai fianchi, poi è risalito e mi ha abbracciato le tette, si è sollevato per baciarmele, i suoi capelli che mi solleticavano il mento. Ha preso i miei seni in bocca uno per uno, prima piano, e poi con voglia, quasi con fretta, succhiando forte, serrandoli fra le mani… e ho sentito una gran voglia tornarmi su; l'ho tirato indietro per i capelli e gli ho infilato la lingua in bocca, senza respirare. Ho sentito il suo cazzo ritornare duro contro la mia coscia, così ho smesso di baciarlo per prenderglielo in bocca.
Non c'è bisogno che me lo dici, che con te non l'ho mai fatto: lo so. Quando per una sera smetti di portare una catena sulle spalle, t'avanza il fiato per farne, di cose.
Come assaggiare il mio sapore sul suo cazzo, leccarlo dolcemente, percorrerlo tutto, piano, anche con i denti, e poi tenendolo fra le dita infilarselo in bocca, continuando ad accarezzarlo con la mano e la lingua, finché tutta quella carne dura ti riempie, ti toglie il respiro.
Gli sono scivolata addosso, senza guardare… devo avergli dato anche una ginocchiata nel naso nel muovermi, ma lui eroico non ha parlato, si è solo sistemato meglio fra le mie cosce, e mi sono resa conto che, con la finestra alle sue spalle, l'unica cosa illuminata nella stanza era la mia figa davanti alla sua bocca. Ma l'idea mi piaceva, già. Mi eccitava da morire, ad essere sincera.
Non scomodarti a ricordarmi che con te non ho mai fatto manco un sessantanove, lo so. Ma mai stata meglio che in quel momento, il suo cazzo infilato in bocca e la mia figa accarezzata dalla sua lingua, dalle sue dita. Mi apriva dolcemente, restava a respirarmi fra le pieghe umide e gonfie, mi leccava piano, esplorandomi tutta, e poi si fermava, facendomi diventare matta; allora per ripicca smettevo anch'io, mi sollevavo su un gomito, polemica, e lo sentivo ridere contro la mia figa, e poi riprendere a baciarmi, a penetrarmi con la lingua e le dita, una, due, le avvertivo bene, dentro, mobili e dure, scivolare e fermarsi, allargare e spingere, e a un certo punto per il piacere il suo cazzo mi sfuggiva di nuovo dalla bocca, fradicio e pesante sulla mano.
Restavo a guardarlo inebetita, mentre godevo di nuovo, una cosa lunga e tremante, profonda, quasi dolorosa.
Gli sono quasi crollata addosso, dopo. Mi sentivo ubriaca, ma ubriaca bene, non come capita a me di solito che mi monta su la carogna e piango tutta la sera. Sbronza da sangue, non da alcool. Con la testa vuota e ronzante di caldo e nuovo. Pigra.
Così l'ho lasciato fare; l'ho lasciato scivolarmi da sotto, girarmi a pancia in su, infilarsi in mezzo alle mie cosce aperte. Con lui davanti alla finestra, così imponente e fusto, il buio nella stanza si era fatto quasi spesso, e vagamente soffocante. Ho chiuso gli occhi, e l'ho sentito accarezzarmi tutta, e poi sdraiarsi su di me, cercarmi la figa con le dita e ritornarmi dentro, in una lunga spinta. Mi ha stretto i polsi, tutti e due con una mano sola, dietro la testa. Così ho dovuto puntellarmi con i talloni, per spingermi incontro a lui, per sentirlo affondare dentro, le braccia tirate in alto ad ogni colpo.
Mi guardava, sopra di me, poi si chianava a baciarmi, senza smettere di spingere, di stringere. La stanza era piena del nostro odore e dei nostri respiri, sgraziati e rumorosi… lui mi stava addosso, schiacciandomi contro il suo torace largo e sudato, mi riempiva a ondate, io avevo solo voglia di godere un'altra volta, di venire tutto intorno al suo cazzo, di sciogliermi e non pensare a niente, a niente, a niente a parte quel suo glorioso cazzo che mi arrivava fino in fondo.
A un certo punto mi ha preso il mento con l'altra mano, ha sussurrato qualcosa che non ho capito, e mi è venuto dentro stringendomi i polsi fino a farmi male, respirando forte in fondo alla gola, come un animale.
Quando ha finito mi ha baciato, ancora, senza uscire da me, anzi come se avesse fame di nuovo, scopandomi la bocca con la lingua che mi sbatteva contro i denti; è stato quello a farmi godere un'altra volta, di un piacere breve e intenso, inaspettato, che mi ha svuotato la testa di tutto. Anche delle scuse che avrei dovuto inventare tornando in camera da te, sudata, rossa e col fiatone, la sborra di lui che ancora mi appiccicava le cosce e il vestito a fiori.
Hai guardato più il mio vestito che me, a pensarci, quella notte. Che straccio doveva sembrarti, mentre continuavi a chiedere. Non "…Cos'hai fatto, dove sei stata". Ma "…Chi è". Chi è, mi hai chiesto un sacco di volte. Eri così ridicolo, sapessi, tutte le luci accese e il tono inquisitore. E io avevo la testa vuota di possibili risposte che non fossero la verità. Ma mica te l'ho detto, chi era.
Cos'era successo sì, invece, e anche come, con tutti i particolari.
Più parlavo, più mi sentivo bene; così come mi sento bene adesso, in piedi sulla porta di casa mia, che ti guardo scendere le scale, quasi di corsa, il borsone blu appeso a un braccio. Il lucchetto, sbattendo contro la ringhiera, fa uno strano rumore…
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