A brigante, brigante e mezzo!

di
genere
etero

Scrivo a mano quanto successo perché voglio fissarlo nella mia mente: momento per momento, gesto per gesto, parola per parola.
Scrivo a mano quanto successo perché con la penna sul foglio non posso tagliare, incollare, né facilmente spostare, cancellare e riscrivere: quindi rifletto di più, misuro con cura le parole, immagino la frase prima di scriverla rivivendo ogni frangente di ciò che è stato.
Scrivo a mano quanto successo perché ho bisogno di dirlo, affermarlo e non posso che farlo parlando alla carta.
Scrivo a mano quanto successo ascoltando il pennino graffiare la pagina di questo quaderno con le mie iniziali sulla copertina in cuoio e con dentro, in maniera sparsa: una breve poesia spagnola, appunti di lavoro, i dati e le misure di un quadro che non ho comprato, l'elenco di alcune cose da fare in città europee che vorrei visitare, la ricetta di un cioccolatino con noce e scorza d'arancia, i consigli di un'amica anziana su come far maturare in eterno il lievito madre e gli indirizzi di tre centri sportivi per le lezioni di tennis. Ci sono anche, nella pagina prima di questa, i dati raccolti per la lettera di dimissione che non ho poi presentato: ho evitato di dare soddisfazione a quell'infido stronzo che gioca sporco per circondarsi solo di chi annuisce ad ogni sua affermazione.
D'altro canto, aver presentato quella lettera sarebbe stato antitetico a questo mio scrivere quanto è successo, quindi non sarei neanche seduta qui ora a vedere asciugarsi l'inchiostro di questa mia confessione. Oddio! Perché ho scelto questo sostantivo? Forse semplicemente perché non lo intendo nel senso di riconoscimento di colpa, ma piuttosto di dichiarazione autobiografica sull'accaduto, secondo verità: come le Confessioni di Rousseau o quelle di Sant'Agostino.
Sto divagando, lo so, ma solo perché mi piace il gesto dello scrivere, inteso proprio come il movimento della mano che scorre sul foglio guidando la stilografica. Mi piace l’alternarsi del moto circolare di alcune lettere con quello verticale e profondo di altre. La parola quanto mi piace. Nel senso che trovo lo scrivere "quanto" sia un bel gesto armonico: primo movimento tondo, poi giù ripidi, dritti, poi le onde della U seguite dalla massima rotondità, la A, quindi le due gobbe della N, quasi un contrappasso del movimento della U di poco prima; di seguito quell'elevazione ripida della gamba della T, il trattino staccato, autonomo, e il ritorno di nuovo alla linea per concludere con la circolarità della O e con la sua fuga in alto a destra verso la parola successiva.
Il tratto di inchiostro rosso granata sulla carta, definito e morbido allo stesso tempo, ha un ché di sensuale -come il gesto del mio scrivere- che mi riporta alla ragione di questa, appunto, confessione notturna.

Ecco i fatti.
E’ pomeriggio. Il mio superiore sta cercando una scusa per farmi fuori da quando è arrivato l'anno scorso. Dall'inizio della riunione non fa altro che mettermi in difficoltà, anche alzando la voce, lamentandosi di ogni cosa. La sua è una sorta di aggressione preventiva: per farmi sbagliare e poter rincarare la dose. C'è con noi la mia collega Mancini, che lui palesemente vorrebbe promuovere sostituendomi: il fatto che il mio posto possa essere preso da una persona così asservita mi fa ribrezzo. Fortunatamente le mie risposte non sono sbagliate, né le procedure che ho seguito sono incorrette. Quindi, per oggi, nessun pretesto gli offro per mettermi alla porta.
Si raccomanda, lo stronzo, che per la transazione di domani il fascicolo sia "ordinato e completo"; lo dice con un tono proprio antipatico, come a lasciare intendere che, senza questa sua indicazione, tutto sarebbe disordinato e incompleto.
Si tratta di ben più di un centinaio di fogli, molti in originale e copia: erano ordinati prima che la consultazione per la riunione li distribuisse tra il suo tavolo rotondo intorno al quale abbiamo appena lavorato e la sua scrivania. Li raccolgo e porto tutto alla mia postazione di lavoro, iniziando a rimetterli a posto in maniera certosina, seguendo l'indice che avevo già preparato. Sono stanca, vorrei togliermi queste scarpe con il tacco troppo alto e sdraiarmi su un divano. Invidio la gran parte dei miei colleghi che sta già andando via, ma voglio che tutto, proprio tutto, sia perfetto.
Incredula, realizzo la mancanza dell'originale di un certificato. Mi coglie il panico. Mi sembrava che ci fosse. Lo cerco sfogliando più volte le cartellette del fascicolo: nulla. Guardo nei cassetti: niente. Con una scusa, vado dal mio superiore per vedere se ho lasciato il foglio dove prima eravamo in riunione, ma tavolo e scrivania sono liberi; ho solo acuito la sua evidente insofferenza per me.
Mi viene il sospetto di aver visto il documento originale solo a computer e di essermi confusa e magari non lo abbiamo ricevuto: guardo tutti gli allegati alle email di quella pratica e, nella sua versione informatica, lo trovo. Tuttavia, non solo proprio nel testo dell'email c'è scritto che l'originale è stato spedito con corriere, ma soprattutto la versione digitale ha una mascherina con scritto in rosso "copia", come quella che c'è nel fascicolo cartaceo. Ma io, invece, ricordo graficamente una versione senza quella scritta: quindi devo aver ricevuto il certificato senza però poi metterlo nel fascicolo. Possibile?
Non posso chiedere aiuto ai due colleghi ancora in ufficio: se solo gira la voce che mi sono persa un documento, neppure il ritrovarlo riporterà il sereno. Devo cercarlo senza dare la sensazione di farlo; aspetto che escano anche loro e pure lo stronzo, che manco saluta. Rimasta sola in ufficio, prendo i raccoglitori delle pratiche sulle quali ho lavorato negli ultimi dieci giorni, cioè da subito dopo quell'email: per errore, penso e spero, avrò messo il certificato nel folder sbagliato.
Se non trovo quello che cerco, posso dire bye bye a questo lavoro. L'idea sola di aver perso un certificato mi scoccia, comunque, più del disonore che cadrebbe, per quello, sulla mia persona.
Nulla, non c'è.
Ripeto tutto quello che ho fatto fino a questo momento, con ancora maggiore scrupolo: cerco nel fascicolo, sulla scrivania, nei cassetti, nei raccoglitori delle altre pratiche. M'illudo trovando una busta in cartoncino del solito corriere: mi è capitato di lasciare i documenti dentro le buste della spedizione, proprio per differenziare l'originale dalla copia. Quando vedo che non è ciò che cerco, è disillusione totale. Ma c’è di peggio, perché proprio maneggiando quella busta mi ricordo di averne buttata via nei giorni scorsi una uguale: e se non avessi controllato bene che era vuota? Ecco come devo aver perso il certificato: l'ho buttato assieme alla busta nel quale era contenuto!
Passa il tipo delle pulizie e si scusa per essere entrato nell'open space mentre sto lavorando: non immaginava ci fosse qualcuno. Devo avere un pessimo aspetto, perché e mi chiede se va tutto bene, poi tira oltre. Effettivamente sono affranta e spossata. E penso che abbia ragione il mio superiore stronzo a trattarmi a pesci in faccia: evidentemente non sono in grado di fare questo lavoro.
Inizio a scrivere la mail di dimissioni e mi sembra doveroso essere precisa, almeno in questo ultimo momento, anche perché l’assenza del certificato andrà spiegata a chi domani potrebbe volerlo vedere. Risalgo, tramite quella email letta prima, alla data in cui dovrebbe essere stato spedito il documento; la riprendo e segno sul mio quaderno giorno, ora, mittente. Penso che, per essere più esaustiva, devo combinare quel dato con quello delle email del servizio postale interno all'azienda: recupero, così, anche quando il certificato è stato consegnato. "Il giorno ..... alle ore ..... hai ricevuto via DHL da XXYYZZ una busta per documenti alla quale è attribuito il n. di protocollo aziendale 0013043." E' lei, da XXYYZZ.
Però non mi torna il corriere: la busta che mi sembra di ricordare di aver buttato non era di quelle gialle e rosse, ma di quelle bianche con il logo arancione e blu di Fedex, lo spedizioniere con il quale lavoriamo solitamente. Quindi, forse, anzi probabilmente, non ho buttato via il certificato! Dev'esserci.
DHL: busta gialla e rossa. Ma certo! Come quella che c'era sulla scrivania del mio superiore durante la riunione e che lui mi sembra abbia messo nel suo cassetto. Non può essere così stronzo! Ecco perché quell'ammonimento sul finire della riunione: "ordinato e completo".
Vado alla sua stanza, di quelle con le pareti di vetro, ma la porta è chiusa a chiave. Cazzo!
Cerco quello delle pulizie e gli chiedo se può aprirmi la porta di quella stanza. Mi segue nell’open space, ma devo essere penosa nel giustificare la mia richiesta: balbetto e mi contraddico. Penso sia per questo che, arrivati alla stanza dello stronzo, gli mostro la porta e lui mi dice di non averne le chiavi.
Gli spiego che devo entrare assolutamente; lo imploro di aiutarmi e gli dico che se non recupero il documento, mi licenziano. "Signorina -carino: poteva evitare il diminutivo, sarebbe stato più in linea con la mia età- deve attendere domani mattina: il suo capo le aprirà e prenderà quello che cerca." Non capisce. Mi giro di nuovo verso quella porta in vetro: ciò di cui ho assolutamente bisogno è a pochi metri da me, ma inaccessibile. Sono un fascio di nervi tenuti assieme dalla disperazione. Vedo, nel riflesso, che questa persona mandata da chissà quale cooperativa, con la sua faccia da ex galeotto non solo non mi aiuta, ma mi sta pure guardando il sedere. Mi volto di nuovo verso di lui e vengo presa da isteria. Non trattengo né le lacrime, né la voce alta: "Quello stronzo del mio capo mi ha fregato un documento, lo ha nascosto, l'ho visto, in un cassetto di quel cazzo di scrivania che c'è dietro questo vetro. Mi farà licenziare se non lo recupero subito e tu stai lì a guardarmi il culo!?"
Impreco e piango, appoggiata con la schiena alla porta, colpendo ripetutamente con la nuca quella superficie di vetro temperato. Il tipo ha ora la faccia pietosa, sinceramente. Allunga una mano verso il mio volto. Dimmi tu se devo farmi consolare da uno con il collo tatuato, penso. Appoggia la dita della sua mano sopra la mia fronte mentre vorrei rompere a testate quel vetro. Poi mi sfila una forcina dei capelli, quindi un'altra. "Se le cose stanno così, Signorì, sa come si dice: a brigante, brigante e mezz'. Vediamo -dice- cosa si può fare. Però non mi metta nei guai! Mi dica se ci sono telecamere che io non vedo e chiuda a chiave la porta dell'open space, che se entra qualcuno il lavoro lo perdiamo tutti e due."
Mi riempie il cuore, mi dà una speranza. Che gentile! Lo rassicuro sull'assenza di telecamere e corro a chiudere ciò che mi ha chiesto, per quanto sia inutile: non c'è più nessuno in tutto l’ufficio. Poi torno da lui e gli domando se riuscirà; proprio in quel mentre le sue dita grosse aprono quella serratura con una facilità per me inattesa. Non per lui: "E' dalle elementari, Signorì, che..."
Entriamo, apro subito il cassetto della scrivania: ecco la busta gialla e rossa, estraggo il certificato. E' lui! Sono euforica! Ragiono sul da farsi, vado alle fotocopiatrici e faccio una copia del documento; la metto nella busta, mentre l'originale lo inserisco nel fascicolo sulla mia scrivania. Poi ritorno nella stanza dello stronzo: l'ex galeotto -oramai è evidente che è tale- sta curiosando nei cassetti. Sghignazza nel mentre della sua ispezione: "Spazzolino, dentifricio, deodorante e …guanti -dice sollevando una scatolina azzurra di preservativi- tiene proprio tutte le cose necessarie, il suo capo." Poi solleva la tastiera: "Signorì, questo è più cretino che stronzo", dice esibendo il post-it con username e password del computer. Gli faccio segno di spostarsi, mi siedo e provo quelle credenziali. Funzionano! Guardo velocemente le email, ma non c'è nulla di interessante. Vado sulla cronologia del web: niente di compromettente. Però c'è un discreto numero di accessi a Libero.it. Clicco: "Ha memorizzato le credenziali di accesso all'email privata", osservo. Accedo e in questa casella trovo subito un eloquente scambio email con la mia collega Mancini. "Passi per i rispettivi moglie e marito, ma in azienda è vietato avere relazioni con i colleghi", spiego scorrendo le mail. Il tatuato, intanto, ha copiato su un foglietto i dati della carta di credito riportati sul desktop in un memo dal titolo eloquente: "Per acquisti online."
"Signorì, non ti spedire quelle email -dice con la sua voce roca- che altrimenti ti beccano. Segnati le credenziali, poi le userai da un internet point. Ok?"
Prudente. Cancello l'ultima cronologia, richiudo le applicazioni che ho aperto e rimetto in stand-by il computer.
Sento l'ebrezza del potere che ora ho sullo stronzo: è elettrizzante. Mi rialzo dalla sedia, prendo la busta gialla e rossa e, inginocchiando una gamba sulla seduta, mi chino per rimettere ciò che devo nel cassetto. Nel riflesso dello specchio vedo l'ex galeotto che mi guarda il sedere. Non ho una grande stima della mia fisicità, anzi, ma sulla parete affianco guardo riflessa l'immagine di me in quella posizione e, per la prima volta, non solo mi trovo sexy, ma mi coglie il pensiero del sesso in ufficio. E' un fulmine che mi attraversa la mente, e non solo. Indugio in quella posizione e, sempre attraverso il riflesso, i nostri sguardi si fissano. E' un tempo sospeso. Emozioni, pensieri e sensazioni inattese e nuove mi animano. Non so neanche decodificarle. Se non una: il desiderio. E non è cerebrale: lo sento lì, come calore tra le mie gambe. Lui appoggia prima una e poi due mani sulle mie natiche: con delicatezza, ma con determinazione. Continuiamo a guardaci negli occhi attraverso il riflesso, mentre alzo il mio busto e indietreggio lievemente per sentire meglio le sue mani. Che ora si muovono: dalle natiche ai fianchi, al ventre, al seno con presa robusta. Sento il suo vigore premere al di là dei tessuti che ci separano.
Cosa mi ha preso? Cosa sto facendo? Tutto, mi sento di poter fare tutto!
Allontano di un passo il mio corpo dal suo, mi volto e mi risiedo sulla seggiola. Alzo la gonna, mi sfilo gli slip, li appoggio sulla scrivania, apro le gambe mettendole poi a cavalcioni dei braccioli. Capisce cosa voglio e si inginocchia, guardandomi negli occhi, poi affonda il suo volto sotto il mio pube.
Cazzo, non è niente male. E ha pazienza. All'inizio, forse, è più la situazione che altro ad eccitarmi: l'idea di essere in ufficio, quella di trovarmi a quella scrivania, l'euforia del problema superato, l'ebrezza per tutto ciò che abbiamo fatto, quella di fare sesso con uno sconosciuto dai modi grezzi e dalla voce profonda o roca, con tatuaggi non rassicuranti, uno che ad incontrarlo di notte per strada c’è da avere paura. Invece ora lui è qui, ai miei piedi, a darmi piacere. Un piacere che diventa fisico, che cresce lentamente con dei picchi che sembrano condurmi all'apice, ma che poi rientrano. Quattro, cinque, sei volte: ciascuna sempre più in alto. Sono come delle L che si scrivono sulle pagine di un quaderno, fatte di muscoli che si contraggono. Sento la sua lingua e le sue labbra giocare con il mio clitoride: abbracciarlo, solleticarlo, succhiarlo mentre stringo con una mano il bordo della scrivania.
Si sta dedicando a me da almeno dieci minuti, ma potrebbero essere di più. Non riesco a percepire il tempo: ogni mia capacità di sentire è concentrata in mezzo alle mie gambe. Poi è come quando tracima un vaso che si riempie d'acqua: prima delle gocce isolate, poi un flusso continuo di piacere al quale mi abbandono, spingendo con entrambe le mani la testa di lui ancora più contro di me. Mi lascio andare, sorpresa, godendomi tutta quell'energia che mi pervade e che mi scuote conducendomi, tra una contrazione e l'altra, all'appagamento più totale. Non trattengo nulla, neanche i gemiti.
Quando il piacere finisce di scorrere in me, mi viene come da ridere. Lo guardo negli occhi. Ha uno sguardo proprio da mascalzone, penso. Si alza, i pantaloni della sua tuta da lavoro non nascondono la sua esuberanza. Mi sento maiala. Si, non mi viene in mente altra parola più pertinente; voglio dargli piacere, come lui ha dato a me. Resto seduta, gli abbasso le braghe infilando le mani dentro l'elastico. Ha un pene tozzo; lo peso con una mano saggiandone la durezza. Prendo dal cassetto la scatola azzurra, estraggo un preservativo, ne apro la confezione. Lo posiziono in bocca e alzo lo sguardo per guardare lui negli occhi. Prendo quell'asta e, aiutandomi con labbra e denti, gli infilo quello che lui chiama "il guanto".
Io seduta, lui in piedi, ma non proprio davanti a me, quasi al mio fianco piuttosto. Tiene la mia testa impugnando poi i capelli dietro alla nuca, ma lascia che sia io a fare tutto, non ha prepotenza. Fortunatamente, visto il diametro, viene presto: sento la sua asta irrigidirsi, la sua mano stringere con più forza i miei capelli, il serbatoio sottile di silicone gonfiarsi a tre riprese subito dopo un verso gutturale di lui. Come si consuma più rapidamente il piacere degli uomini rispetto a quello delle donne!
Gli sfilo il preservativo, lo annodo, lo metto in un foglio che accartoccio e butto nel cestino sotto la scrivania dello stronzo. L'idea di lasciare qual trofeo, anche se occultato, mi diverte. Ci ricomponiamo, rimettiamo a posto e usciamo dalla stanza; lui, aggiungendo alle forcine una lunga graffetta che ha recuperato sulla scrivania, richiude la serratura. Lo ringrazio e mi saluta con un "Ciao Signorì!"
Finisco di riordinare le mie carte continuando a pensare a quanto sia stato intenso il mio piacere. Poi l’orizzonte si allarga e subentra la curiosità di vedere come reagirà lo stronzo domani quando in riunione realizzerà che quel documento è nel fascicolo "ordinato e completo"; sarà divertente.
Se rovesciandolo si smuovesse qualcosa, anche la faccia della sua povera assistente quando svuoterà il cestino potrebbe essere divertente.
Ecco la mia confessione: ho detto ciò che è stato.
Ora, con un coltello, staccherò queste pagine dal quaderno, andrò sul balcone e le brucerò nel vaso dopo essermi accesa la sigaretta. Poi, è quasi l’una, mi sdraierò a letto, sperando di addormentarmi non disturbata dal russare di mio marito. Mi viene in mente che domani, dopo il lavoro, devo portare mia figlia al tennis. Mentre lei farà lezione, ingannerò il tempo in un internet point: devo scrivere un paio di email.

larecherche@tutamail.com
scritto il
2025-02-07
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