Nella mia rete.

di
genere
saffico

*
Risalendo una concatenazione di eventi, cerco l’origine di quello che sto vivendo. Forse il punto di partenza è quando Valeria, inaspettatamente in casa mia, ha trovato sul divano il gioco che io e Michele avevamo comprato, quasi per scherzo, per la nostra intimità. Poi il vedere l’espressione suo volto quando, in un momento di autoerotismo, si abbandonava al piacere mentre il suo corpo sinuoso era attraversato da una sequenza di scosse. Quell’immagine di godimento mi ha conquistato. Da allora, come un tarlo, l’idea di guardarla nuovamente in quel piacere ha iniziato a maturare in me in una spirale di curiosità, aspirazione, ambizione: dovevo vederla ancora godere. Di più: volevo determinare il suo piacere. E l’ho fatto, traendone un godimento che mi ha spinto al desiderio di fare un passo in più. Un sogno, piacevolissimo e straordinariamente realistico, mi ha indicato in quale direzione percorrere quel passo ed è stato il preparare il terreno per realizzare quella mia fantasia, che mi ha portata a ciò che sto vivendo oggi.
Rifletto su tutto questo mentre Valeria dorme alla mia destra, in questa stanza d’albergo, nel letto alto e ampio sul quale ci siamo lasciate cadere ieri notte. Dalla finestra, attraverso le persiane, filtra trasversale e bianca la luce della mattina. La laguna di Venezia è lì fuori, con i suoi suoni e rumori d’estate e io sono grata a tutti quegli artisti giapponesi dei secoli scorsi, la cui mostra di opere è stata pretesto di questa occasione di intimità.
La serata di ieri ha preso una piega diversa dal previsto. O anche più di una.
In ritardo, eravamo uscite dalla nostra stanza per andare giù alla cena di gala. In ascensore Valeria aveva scattato una fotografia nello specchio che ci rifletteva eleganti e sensuali. L’immagine ci ritraeva a corpo intero, nel nostro contrasto: Vale sandali bassi, io decolté di vernice nera con tacco altissimo, lei abbronzata e con i capelli scuri, io di carnagione chiara e bionda, lei frontale, io di tre quarti, Vale con la scollatura della giacca del suo smoking indossata a nudo, io con la schiena scoperta. Abbiamo riso, mentre la postava sul suo profilo Instagram, ipotizzando a quali hastagh una nostra amica social network addicted avrebbe abbinato a quell’immagine: #sisterincrime, #bellissime, #doubletrouble #besties.
Giunti nel salone delle feste dell’albergo, non erano mancati i complimenti per la mia relazione della mattina. Poi eravamo state accompagnate al lungo tavolo d’onore: con il Sindaco e l’Assessore alla Cultura, i vertici della fondazione, quelli della società di gioielli sponsor della mostra, tutti noi relatori con accompagnatrici o accompagnatori. E Jenna. Valeria, non vicino a me, sedeva al suo fianco. Spesso mi voltavo a guardarla, attratta dalle risate di quel gruppo di commensali: in quella parte del tavolo c’era un consumo di vino certamente disinvolto.
Nella pausa prima del dessert eravamo uscite nel parco noi tre. Jenna mi aveva chiesto quali ulteriori riflessioni avessi fatto sulla sua idea di documentari sull’arte erotica. Le avevo espresso il mio raggiunto convincimento del fatto che la sua era una buona idea. Ambiziosa, non facile, ma assolutamente meritevole di essere sperimentata. Al ché aveva richiamato un cameriere domandando “bollicine freddissime”: era subito stata portata una bottiglia che lei aveva versato in abbondanza in tre bicchieri. “Allora brindiamo! Ti voglio nella squadra: lunedì organizziamo una call con i miei collaboratori a New York, sono tutti bravissimi. Ti piaceranno e tu piacerai a loro.”
La sorpresa era sta più forte dell’entusiasmo, se possibile. Anche perché la mia insicurezza aveva subito fatto voli pindarici: cosa intendeva dire con “ti voglio in squadra”? Una mano? Una consulenza? Comunque, la paura di non essere all’altezza aveva già iniziato a occupare spazio nella mia testa. Amen, l’avrei affrontata e superata, come sempre. O quasi.
Dopo un indimenticabile tiramisù, prima che la serata finisse, Valeria e io eravamo andate a fare due passi nei chiostri di questo vecchio convento, guidati dalla moglie dell’assessore a farci da cicerone. L’assistente di Jenna, efficienza e concretezza allo stato puro, ci aveva poi raggiunto per chiedermi l’indirizzo email, nonché la disponibilità per una riunione online lunedì pomeriggio a una determinata ora. “Le mando anche una bozza di accordo, ma è solo una bozza: poi ne parliamo io e lei -aveva detto- o chi mi indicherà per lei. Jenna non si occupa di questi aspetti: non le piace parlare di soldi e clausole. Ok? Vorrebbe salutarvi prima di andare via, se mi seguite vi porto da lei.” Così e ci aveva accompagnato da lei, che era al bar dell’hotel. Quanto riesce a bere quella donna è invidiabile: con molto meno, io avevo già mal di testa e neppure Valeria era al massimo della sobrietà. “Un ultimo bicchiere?”, aveva domandato Jenna.
Lo aveva detto con un tono meno imperativo di quello che avevamo già incontrato nel pomeriggio e ciò ci aveva permesso questa volta di declinare. Seduta su una poltrona, le era accidentalmente caduta la borsa. Valeria, che era seduta davanti a lei, si era chinata per prenderla. La sua posizione, per qualche secondo, era stata tale da mostrare, attraverso la scollatura, lo stampo del bacio che le avevo dato sul seno prima di uscire dalla nostra camera. Jenna ci ha guardato curiosa, prima l’una poi l’altra. Quindi, indicando con gli occhi aveva detto: “Sta bene non solo sulle labbra il colore del tuo rossetto. Ditemi: è un marchio?”. La sua domanda mi aveva spiazzato, ma Valeria, senza minimamente scomporsi, le aveva risposto: “No. E’ un anticipo.” Jenna aveva sorriso con tenerezza, poi si era rivolta a me: “Gerda Wegener è stata un’eccezione nell’arte europea. Io l’adoro: dovremo parlarne nel documentario.” Le avevo risposto “Si, anche di qualche bronzo di Gustave Couber.” “Brava!”, era stata la sua reazione elettrizzata prima di alzarsi. “Allora vi lascio andare. Che sia una buona notte!” Abbracciandoci si era congedata.
A nostra volta, dopo aver raggiunto gli altri ospiti della serata, li avevamo salutati e ci eravamo dirette alla camera. Un suggestivo preludio per clavicembalo di Bach ci aveva accompagnato in sottofondo mentre salivamo in ascensore; riflessa nello specchio avevamo trovato l’immagine della nostra stanchezza e, camminando per il lungo il corridoio, avevamo riconosciuto di aver bevuto troppo. Valeria era entrata in stanza dopo più di un tentativo di aprire la serratura elettronica. Quando, poi, io avevo chiuso l’ingresso della camera dietro di me, lei si era voltata, mi aveva spinto con delicatezza con le spalle alla porta, aveva guidato le sottili spalline del mio vestito fino a farle cadere, con un effetto a cascata di tutto l’abito. Aveva fatto un passo indietro ammirandomi dritta, in piedi sui miei alti tacchi con solo la brasiliana bordeaux a coprirmi.
Poi, con passo incerto, era tornata verso di me. Mentre ci baciavamo dolcemente, le avevo aperto la giacca e i nostri seni, alla stessa altezza grazie ai miei trampoli, avevano strusciato l’uno contro l’altro. Ne ricordo le sensazioni meravigliose. Ondeggiavamo lentamente. “Senti -aveva detto, mentre mi baciava il collo, vicino all’orecchio - siamo entrambe quasi ubriache, tu hai già mal di testa e sta arrivando anche a me. Se ci dormissimo su?”
“L’alcool ti fa saggia!”, le avevo risposto. Sarebbe stata una forzatura: una sorte di esecuzione di un dovere, non di sfogo del desiderio.
Ed eccoci qui, ora: io sveglia, Valeria morbidamente adagiata al mio fianco, a pancia in giù. La sua camicia da notte di seta beige copre il suo corpo snello e slanciato. Braccia e gambe mi appaiono fluide come i lunghi capelli scuri. Non mostra segno di risveglio.
Ne approfitto per andare a farmi la doccia. Quando esco lei è davanti alla Nespresso e mi porge un caffè sorridendomi mezza addormentata: “Se non lo prendo subito, mi esplode la testa”, afferma. “Idem. Dormito bene?”, le chiedo. Annuisce senza troppa convinzione e va in bagno camminando come uno zombi. Sento l’acqua della doccia e vado ad aprire la finestra: il riflesso del sole sull’acqua della laguna inonda la stanza; Venezia, con questa luce, mi appare là in fondo in tutta la sua magia. Vado verso la mia valigia nell’armadio e vedo le mie scarpe per terra mentre sento che l’acqua della doccia smette di scorrere. Quando Valeria esce dal bagno, indossando un accappatoio bianco identico al mio, mi trova in piedi vicino alla finestra. “Mi piace essere alla tua altezza”, le dico muovendomi verso di lei sui miei tacchi alti e slacciando la cintura dell’accappatoio. Lei apre il suo. “Riprendiamo da dove avevamo lasciato”, dice con malizia, avvicinando la sua bocca alla mia, il suo seno al mio.
Le mie narici si riempiono dell’inebriante profumo della sua pelle. Le nostre labbra si sfiorano, poi si uniscono: un bacio, è il primo una serie di baci di una tenerezza che piano lascia il sopravvento alla passione. Le nostre lingue si cercano nella bocca dell’altra, le nostre mani abbracciano dietro la schiena, la accarezzano disordinatamente, scendono a stringere i glutei liberati dagli accappatoi caduti per terra.
Appoggia le mani sule mie spalle e mi spinge sul letto illuminato dal sole.
Lascio scivolare via le scarpe e risalgo di schiena per essere completamente sdraiata. “Le tue tette svettano”, dice mentre prima con l’uno e poi con l’altro ginocchio sale sul letto. Gattona fino a essere sopra di me. Le nostre labbra, ancora, si baciano. I nostri corpi si strusciano reciprocamente. Poi porta la sua bocca al mio orecchio e con la lingua disegna una linea che va giù per il collo, sotto il mento, indugia in quella piccola depressione che si trova in mezzo alle clavicole, nella parte superiore dello sterno. Quindi la fa passare in mezzo al mio seno pieno che le sue mani contengono a fatica. Lo bacia, poi mi lecca i capezzoli duri e carnosi. E’ una sensazione stupenda.
La sua mano sinistra scende con un obiettivo che non aggira, a indicare che il tempo dell’attesa è già stato troppo; Valeria si sposta oltre il mio fianco sinistro, per poterla governare meglio, mentre la sua lingua continua a sollecitarmi i capezzoli. Sento la sua mano scivolare lungo la mia fessura umida. Su e giù, più volte. “Se fossi il polipo del sogno della moglie del pescatore?”, dice guardandomi, riferendosi al disegno di Hokusai che le avevo mostrato in treno. Si sposta con movenze feline tra le mie gambe, che divarica. Piego le ginocchia mentre lei scompare sotto il mio ventre. Una pioggia baci delicatissimi, dall’attacco di una coscia arriva all’altra. Poi in mezzo, tra le mie labbra gonfie, quindi sale al clitoride, lo bacia e inizia a leccarlo. Una sensazione indescrivibile mi conquista. Voglio vederla: prendo un cuscino e lo metto dietro alla mia nuca. Non basta, lo piego in due: ora guardo la sua testa, i suoi lunghi capelli, tutti spostati da un lato, lì in mezzo alle mie gambe divaricate e piegate. La sua lingua ogni tanto scende, si infila tra le mie labbra, si insinua. Poi risale, torna al clitoride gonfio: lo lecca, lo bacia, lo succhia. A più riprese, alza lo sguardo e fissa le sue pupille nelle mie, poi torna giù a succhiare, ad aspirare come polipo di quella stampa.
Non so quanto dura: tanto. In un crescendo di piacere che sembra infinito. Mi stringo il seno con le meni, poi una la sposto sulla testa di Valera: voglio sentire la sua lingua il più possibile muoversi lì dove ogni suo colpo è accelerazione di un’estasi che monta. E’ come la grande onda di Kanagawa, la più famosa delle quattro che ha disegnato, quella azzurra: si gonfia alta, piena, inarrestabile, sale, sale ancora e poi finalmente deflagra con irruenza in un piacere che urlo, mentre premo ancora con le mani la testa di Valeria tra le mie gambe. Godo urlando il mio piacere. Godo per un tempo che è lunghissimo.
Ne riemergo spossata, incredula, esausta.
Valeria, liberata dal mio giogo, risale con teneri baci il mio ventre, il seno, il mento: poi sigilla le sue labbra alle mie facendomi sentire sulla lingua il gusto del mio umore. Il busto suo è adagiato sul mio, le gambe sono a cavallo delle mie. Infilo le mie mani tra i nostri ventri, le faccio scivolare più sotto, ma non le fermo dove si incontrano le origini del nostro piaceri. Vado ancora più giù, ne volto i palmi e afferro i suoi glutei accompagnandola a risalire sopra il mio petto, poi ancora. Asseconda il mio movimento spostando le ginocchia fino a quando la sua fessura sovrasta il mio viso: è gonfia, umida, profuma di piacere. Allungo la lingua il più che posso per raggiungerla, sollevo lievemente la testa: la tocco con tre, quattro colpi. Con le mani accompagno i suoi fianchi a scendere di qualche centimetro: ora non ho più bisogno di tenere la testa sollevata: la mia bocca è vicino alle labbra della sua fessura. E’ una sensazione stranissima quella che mi trasmette la lingua: si muove tra labbra che non sono semplicemente morbide, sono quasi soffici. Sposto il mio obiettivo sul suo bottone che lecco di piatto, che bacio, che succhio. Muove il suo bacino come a cercare lei la mia lingua, come a schiacciarla. Geme. Sento, sotto le mie mani, i suoi glutei muscolosi contrarsi. La mia bocca è avida; la mia mano destra scende nel solco delle sue natiche. Con indice e medio, mentre la mia lingua si dedica al clitoride, massaggio le labbra gonfie di Valeria; infilo in lei le due dita scivolando con assoluta facilità in quella morbidezza: dentro, fuori. Il suo profumo e il suo sapore dolce mi fa impazzire. Il pollice della mia mano prima passa intorno, poi sollecita la sua rosellina, sopra a dove le altre due dita continuano il loro movimento. Quando, dopo averla bagnata con il suo succo, spingo piano la falange del pollice dentro il suo ano, Valeria ha un sussulto: non di dolore, sembra più di sorpresa. Inclina il busto in avanti per alzare i glutei e agevolare la prosecuzione del doppio lavoro delle mie dita. Vedo indice e medio muoversi in un’abbondanza di succo. Tenere la mano in quella posizione ed essere contemporaneamente efficace nella sua azione è impossibile. Sposto con delicatezza Valeria fino ad accompagnarla a sdraiarsi supina. “Mettiti comoda”, le dico prendendo uno dei cuscini e posizionandolo sotto i suoi glutei. Valeria ha le gambe piegate, aperte. Io sono in ginocchio, davanti a lei. La guardo lì, in una visione più ampia di quella che avevo pochi secondi prima: la striscia dritta, stretta e ben delineata di peli neri conduce all’apice delle sue labbra; subito sotto, il suo clitoride appare allungato e rosso, tutta la sua fessura è arrossata e perfettamente esposta, con il suo morbido gonfiore tutto lucido; le sue labbra sono ali di una farfalla, ma non richiudono dove indice e medio hanno appena giocato; in basso, anch’essa perfettamente esposta, la sua rosellina che attira la mia attenzione.
Mi chino su Valeria fino a raggiungere con la bocca la sua: sono io questa volta a farle sentire il sapore di lei sulla mia lingua, sulle mie labbra. La baciao con lussuria. Non si accorge di ciò che sto prendendo da sotto il cuscino appoggiato alla testata del letto. Lo avevo nascosto prima, prendendolo nella mia valigia mente lei finiva la doccia.
Lo tengo lontano dal suo sguardo, facendolo scivolare sulle lenzuola, aggirando il suo corpo. Lo porto tra le mie gambe mentre indietreggio sul materasso per potermi chinare a baciare le labbra di Valeria. Non più quelle della bocca.
Mentre, con una mano appoggiata sul suo ventre, riprendo a leccare il suo clitoride duro, con l’altra guido quel gioco che Valeria mi aveva visto usare nella vasca a casa mia. Lo porto a bagnarsi dei miei umori. Valeria geme per i colpi della mia lingua, io per quella cappella plastica che sta entrando in me: l’idea di prepararla per entrare al meglio in Valera mi eccita da morire. L’altra cappella di quel fallo doppio, più piccola, puntella il mio ano in maniera inerte, non invasiva. La porto a prendere il posto della punta del fallo più grande e la infilo in me. Le sue misure sono tale che tutto quel piccolo fallo scivola nel mio ventre, mentre Valeria mi cinge la nuca con una mano, come a volermi stringere a quella parte di lei che sembra pulsare sotto i colpi della mia lingua.
Risalgo tenendo aperta la lingua; dal clitoride all’ombelico e da questo al seno di Valeria: bacio, lecco e succhio i suoi capezzoli, poi vado a baciare lei. Mentre infilo la mia lingua nella sua bocca, con la mano estraggo quel gioco da me e sposto il glande più grande tra le cosce di Valeria, nel mezzo delle labbra umide. Lo sente, come il suo verso soffocato nel nostro bacio ben indica. Ritraggo il mio volto dal suo: guardo i suoi occhi, lo sguardo entusiasta e voglioso puntato nei miei. Il suo sorriso accattivante è un invito a spingere. Rialzo il mio busto, sono inginocchiata tra le sue gambe; porto la mia mano sinistra sul suo pube, il mio pollice passa veloce e in movimenti irregolari sul suo clitoride. La mano destra preme piano per far entrare nella sua vagina quel falso membro venoso. Lo tengo inclinato in modo che il fratello minore non entri in gioco. Avanti e indietro, una, due e tre volte. È tutto dentro mentre il mio pollice continua a dedicarsi al clitoride con movimenti veloci, nervosi. Comando quel fallo doppio: non solo avanti e indietro nel ventre di Valeria. Lei continua a guardarmi con quegli occhi che sembrano dire “non ti fermare”. Non lo farei mai: vederla contorcere il suo ventre, assecondare con il bacino i movimenti di quel gioco, è un’immagina estasiante. Mollo il clitoride, sposto la mano intorno alla sua vagina, sotto. Lei solleva le gambe piegate e aperte: è completamente esposta. Con le dita della mano sinistra raccolgono gli umori che escono da lei e gli spalmo sul quell’altra apertura che c’è subito sotto. Cambio lentamente, dolcemente, progressivamente l’inclinazione di quel gioco fino a portare il piccolo glande ai confini dell’ano di Valeria. “Se lo vuoi, è tuo”. Il respiro di Valeria è corto e profondo allo stesso tempo; non proferisce parole, ma tenendo i suoi occhi nei miei acconsente muovendo il volto. Spingo in lei anche quella parte del gioco: prima appoggiando stabilmente quel glande sulla sua rosellina, poi facendo sì che un millimetro alla volta la dilatasse. Riporto la mano sinistra sul pube e riprendo a sollecitare il clitoride con il pollice proprio quando vedo quella cappella venire assorbita nell’ano di Valeria. Non so se il piacere che mostra in quel preciso istante è per ciò che guida la mia mano destra o per la cura che con l’altra mano riservo al suo bottoncino allungato. So che comunque inizio a condurre quel gioco doppio di silicone in un dentro-fuori che dura pochi minuti. Valeria ha chiuso gli occhi. Si morde il labbro inferiore, su un lato della bocca. “Sei come le stampe delle Romantiche avventure di Man’emon, anzi come quella delle due ragazze con un uomo. E’ quell’uomo che si muove dentro di te ora, lo senti?”. Il suo ventre si contorce mentre il suo gemito si fa sempre più forte. Poi sembra pervaderla una scossa: lunga e profonda, invincibile. Poi subito un’altra e un’altra ancora. Chiude le ginocchia serrando le cosce, come a voler trattenere non solo quel gioco, ma anche il proprio piacere. Il suo volto è estasi, senza aggettivi possibili: è già tutto. Poi si lascia andare, di colpo, senza più energia. Estraggo piano quei due falli da lei. Poi mi adagio a pancia in giù per metà su di lei, ma con il mio peso sul materasso. Non voglio gravarla, voglio starle vicino, sentire i nostri corpi caldi e appagati toccarsi.
“Vederti godere mentre vieni penetrata è bellissimo. Sei di un erotico incredibile: il tuo ventre che si contorce, il tuo bacino che insegue il fallo che hai dentro te. Sei eccitante.”, dico mentre con la mano la accarezzo tra i seni.
“Grazie per aver portato quel coso doppio”, mi dice. “Era da tempo che non sentivo quella sensazione. E poi, dietro è stata una bella scoperta!”.
“Vale”, le dico inframezzando le parole con piccoli baci sulle sue labbra, “è solo un pezzo di silicone. Meriti di godere con qualcosa di vero: se già con uno falso sei così, chissà con l’originale!”. Ridiamo. Mi bacia.
Con la mano torno leggera tra le sue cosce, scendo con due dita per quella striscia di pelo morbido, le scorro sulle sue labbra, poi risalgo sempre senza premere fino a quel bottone e schiaccio leggermente. Vale reagisce emettendo un verso che è una via di mezzo tra espirazione, risatina e godimento. Continuo a muovere piano le mie dita, sposto le mie labbra chinandomi sul più vicino dei suoi capezzoli.
“Pensa come sarebbe bello se, mentre io ti lecco qui, un cazzo vero fosse in te? E poi -dico- mentre spinge i suoi colpi io e te ci baciamo.”
Sento che allarga la gamba libera; sposto le mie dita più in basso e trovo la sua fessura tra le labbra gonfie già aperta. Indice e medio entrano in lei in profondità. Con i polpastrelli cerco subito il punto del suo piacere: premo sulla parete anteriore e lascio, e premo e lascio.
“Si, sarebbe bellissimo. Si. Si. SI!” dice ansimando subito.

* Volendo, ma non necessariamente, questo racconto può essere letto come seguito dei cinque precedenti, in ordine cronologico, dello stesso autore.
larecherche@tutamail.com
scritto il
2024-10-08
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