Il culo della “stronza”

di
genere
sentimentali

A lui piaceva il suo culo e lei, stronza, lo sapeva.
Stronza perché si divertiva a provocarlo sapendo che lo eccitava, sapendo come eccitarlo, come usare il proprio corpo per provocare in lui pensieri peccaminosi, caldi, forti.
In quei momenti lui la chiamava “la stronza” perché, quando decideva, cominciava a muoversi in maniera sinuosa, irresistibile, come il nettare per le api, come il miele per l’orso.
L’attenzione di lui ora era concentrata sul culo che lei muoveva in armonia col corpo.
Ancheggiava e, magistralmente, muoveva i fianchi.
Lei sentiva il suo sguardo addosso, anche se non lo vedeva, anche se lui cercava di non darle la soddisfazione di farle sapere che, in quei frangenti, era lei a condurre il gioco, era lei lo strumento per la musica, quell’armonia non udibile che, però, crea sensazioni ed emozioni, una musica jazz, dove le regole sono quelle dell’improvvisazione del momento dettato dai desideri profondi, conosciuti ma sempre imprevedibili nella forza ed intensità.
Lei sapeva suonare quella cazzo di musica, quella che lo distraeva e lo chiamava, fino a diventare la sirena di Ulisse, la Circe che gioca col suono del richiamo, consistente anche in quella ciocca di capelli fuori posto che a lui piace e lei, stronza, si passava tra le dita che venivano mosse al ritmo dei fianchi.
Le aveva detto, tempo addietro, che il suo corpo era come la sirena e lei, ridendo, aveva risposto che non serve una maga per trasformare un uomo in un porco. Anche allora, sorridendo col capo appena chino, giocava con quella ciocca di capelli fuori posto.
Il sole entrava dalle finestre e creava un fascio di luce ed ombre nette. Lei giocava col sole, sapendo che l’ombra copriva il culo per illuminare le gambe fino a che, muovendosi, i raggi non arrivavano a scaldarle il culo, costringendolo a seguire l’ombra che dalla caviglia piano spariva fino a rivelare ciò che il vestito corto appena copriva, lassù, dove finivano le lunghe gambe.
L’eccitazione è un gioco delle parti, una danza delle reciproche sensazioni che derivano dalla conoscenza degli intimi pensieri, quelli che sorgono piano per prendere sempre più forma, come il magma che inizia con un piccolo rivolo per travolgere sempre più, fino ad essere inarrestabile per cedere ad esso.
Il gioco della parti porta a ritardare o accelerare la discesa, come se fosse possibile scegliere e modellare il pendio per condurre quel forte calore dove, quando e come si vuole.
Nel cercare di non darle la soddisfazione di farle sapere dei suoi pensieri sempre più forti, le dava invece il piacere di essere vista e desiderata pur sapendo che il magma ancora era nascosto, conoscendone gli sforzi e sapendo che era solo questione di tempo.
Il tempo: tic-tac tic-tac tic-tac.
Lei giocava col tempo, giocava con quel magma, ritardando il tempo o accelerandolo.
Il tempo iniziò a scadere quando lui non fece più finta di nascondere il desiderio, rompendo gli argini del gioco, non potendo più nascondere la voglia di lei ma, anzi, facendo di essa il nuovo fulcro.
Il gioco delle parti cominciò a suonare una nuova musica, in crescendo come il magma, sempre più caldo, forte, irruente.
Da nettare era diventata miele e l’ape era diventata orso.
Da cacciatrice stava per diventare preda.
Ad argini rotti, coi ruoli cambiati, le movenze subirono un’accelerazione, aumentando il pendio sul quale il magma stava iniziando ad acquistare velocità, sapendo che, ormai, non avrebbe più potuto essere fermato.
La stronza si sentì stronza e fece la stronza.
Si muoveva senza guardarlo, ostentando quell’indifferenza che non aveva, sapendo che aveva iniziato ad odorare di miele.
Il gioco durò fino a che non fu più possibile rallentarlo, fino a quando il magma non iniziò a travolgere steccati prima e muretti poi.
Lei lo sentì alzarsi e cercò di allontanarsi, quale ultimo tentativo di fuga che aveva il solo scopo di fare avvicinare il cacciatore.
Sapeva che era eccitato, lo conosceva. Sentiva il suo respiro senza udirlo.
Era sempre più vicino e, ora, si accorgeva che era lui a rallentare il passo, per giocare con la preda che, stronza, si passò quella cazzo di ciocca tra le dita, abbassando la testa per mostrare il collo.
Cazzo quanto gli piaceva quel collo, quanto adorava la parte di pelle nella quale viene messo il profumo, perchè punto più caldo, dove passa il sangue, quel sangue che ora in lui scorreva sempre più velocemente andando ad alimentare la parte fisica del suo desiderio, della sua voglia, della sua eccitazione.
Lui era sempre più vicino, lo sentiva, lo vedeva girando appena il viso guardandolo negli occhi che erano accesi di sesso.
Sempre più vicino lui aderì col corpo al suo, spingendola, sempre più orso e miele, sempre più cacciatore e preda che, ora, non scappava ma seguiva la spinta.
Non poteva più scappare perché la mano di lui le cingeva la vita, facendo aderire i due desideri.
Stronza, sapeva essere stronza e spinse il bacino contro il suo cazzo, trovandolo, come sapeva, duro.
L’altra mano di lui le cinse il collo intorno al pomo d’adamo fino a farle sentire la sua lingua sul collo. L’altra mano era sul culo.
Il pomo venne liberato per poter cambiare presa, che scese al seno, tenuto nella mano.
Ancora stronza, alzò la testa all’indietro per fare abbassare i capelli e impedirgli di leccare il collo, spingendo, però, col culo verso il suo cazzo.
La dita si strinsero al seno. Venne liberato il culo perchè la mano, ora, era impegnata sui capelli, tenuti fermi tra le dita, anch’esse vogliose e anticipatrici del desiderio, del possesso.
Ecco, il possesso, quello che segue il desiderio ed anticipa il piacere.
I capelli furono presa per liberare il collo, mentre il corpo, aderente, la spingeva.
Lei sapeva dove la voleva condurre.
La preda, stronza, negli ultimi momenti in cui era cacciatrice, si era diretta verso il tavolo, dove lui la spinse facendo in modo di farle sentire il cazzo attraverso il tessuto dei vestiti estivi.
Le fece un po’ male quando, attraverso i capelli, la costrinse col busto sul tavolo, tenendola giù, ferma. Il male divenne adrenalina, anticipatrice di altro dolore, quello che avvertì quando le strappò le mutandine dopo averle alzato il corto vestito con l’ansia di chi non regge più il proprio desiderio, quell’ansia che non ha tempo di togliere ciò che invece è costretto a strappare, per liberare ciò che gli consente di dare forma al possesso generato dal desiderio e spingerle il cazzo nel culo, per scoparla con la passione che quella sensazione di possesso genera, con la forza dell’orso che fa sua l’arnia con tutto il miele, quello del piacere, spingendo con sempre più forza fino a che lo sperma nel culo non viene anticipato da quelle sculacciate che hanno il compito di far cadere l’ultimo argine per dare spinta a ciò che da tempo non viene più trattenuto.
Era ancora dentro di lei, pur con l’animo placato dal consumato possesso.
Il busto aderiva alla schiena della donna trasmettendole quel calore che lei stessa aveva generato.
Il cazzo era ancora duro e lei muoveva appena le anche per sentirlo.
L’alito dell’uomo fu ciò che lei avvertì prima che la lingua assaporasse ancora una volta il collo, umida carezza interrotta solo per poter avvicinare la bocca al suo orecchio, tenuto scoperto da quella mano che mai aveva abbandonato la testa per tenerla giù, ferma.
“Sei una stronza, un’eccitante stronza”.
La lingua entrò nell’orecchio prima di tornare al collo.
di
scritto il
2022-06-02
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