Ridotta in schiavitù, venduta (parte 7)
di
Kugher
genere
sadomaso
Per Angélique, la punizione per non essere riuscita a far godere il Padrone per ultimo e, quindi, avere sbagliato a dosare le proprie abilità nel pompino, fu terribile. Non tanto o solo per il dolore, ma per ciò che rappresentò nel suo animo già provato e indebolito, gettata in un baratro dopo una vita di agi e ricchezze.
I Padroni la fecero attendere alcuni giorni per la punizione.
Sapevano che la schiava avrebbe avuto maggior tensione, posto che l’incertezza è peggiore della certezza e che questo l’avrebbe indebolita ancor di più.
Passarono 3 giorni, 3 infiniti giorni scanditi dall’apparente normalità dell'addestramento con le punizioni già note alle quali sempre più raramente era sottoposta atteso il grado di soddisfazione che riusciva a raggiungere nei Padroni.
Il giorno della punizione la lasciarono in cella dal pomeriggio.
Non le dissero che la sera sarebbe stato il suo momento, ingenerando maggior tensione, ma lei lo temeva, fino ad arrivare ad avere la certezza che sarebbe avvenuta quella sera, conservando però in sé quel minimo di speranza che ha il solo risultato di non lasciare spazio alla rassegnazione, a volte molto utile.
La andarono a prendere la sera, all’ora di cena.
La fecero lavare e profumare, ingenerando false convinzioni sul suo uso e che, invece, le avrebbero creato maggiori turbamenti quando avrebbe compreso l’uso al quale era destinata.
Ci sono, a volte, momenti in cui, dopo il loro accadimento, qualcosa è cambiato. Può essere poco o tanto, non ha importanza. Ciò che rileva è che “dopo” qualcosa non è più come “prima”.
Per Angélique quel momento avvenne la sera in cui ricevette la punizione per non essere riuscita a far godere per ultimo il suo Addestratore.
Aveva dolore, stava soffrendo molto, moltissimo. Lei era esile, un corpo curato da sempre con l’esercizio fisico ed una dieta appropriata per essere bella, ma esile.
Sopra di sé, stesa a terra sulla schiena, aveva un Padrone, in piedi. Era pesante, le faceva male. Un piede era sui seni e l’altro sul ventre.
Comprese il motivo per il quale tutti i giorni le avevano fatto fare esercizi per rinforzare gli addominali.
Il Padrone la stava usando come uno zerbino non solo per passarci sopra, ma per pulirsi le scarpe, pesando così su un piede solo e strofinando la suola della scarpa sul corpo della schiava. Prima una e poi l’altra.
Il dolore era enorme, le sembrava di scoppiare, letteralmente. Tratteneva il fiato perché aveva paura a svuotare i polmoni, cosa che faceva quando cambiava il peso del Padrone sullo zerbino umano.
Le sembrava le esplodesse la testa dalla pressione e dal dolore.
Eppure quel Padrone faceva con una calma che a lei sembrava infinita, prima una scarpa e poi l’altra.
Finalmente era sceso e le sembrava di sentirsi sollevare dalla mancanza del peso.
Non la fecero alzare ma dovette restare lì ad aspettare il prossimo Padrone o Padrona che sarebbe arrivato.
Era stata destinata, per tutta la sera, a svolgere l’umiliante e annullante compito di zerbino umano.
Inizialmente non aveva capito perché l’avessero fatta stendere a terra davanti alla porta. Non aveva mai visto quell’uso. In effetti, pensò, non l’aveva visto perché avveniva fuori dal locale ristorante dove lei, solitamente, si trovava assieme alle altre schiave deputate al servizio della cena o del pranzo.
Dopo qualche minuto essere stata sistemata, senza che le avessero spiegato quale sarebbe stato il suo uso, pensò che fosse un ornamento e che, forse, le sarebbero passati sopra con un piede o, alla peggio, si fossero fatti leccare un piede o una scarpa prima di entrare.
Poi vide arrivare il primo Padrone e, con crescente ansia, rimase in attesa di scoprire l’effettivo uso.
Restò basita quando l’uomo, come nulla fosse, le salì sopra con entrambi i piedi ed iniziò a pulirsi le scarpe.
Al momento non ebbe modo di pensare a nulla e, dopo che fu sceso, era troppo presa dal recupero delle forze e dal timore nell’attesa del prossimo perché, a quel punto, era evidente quale fosse la punizione.
Dopo che il secondo Addestratore si era pulito le scarpe prima di entrare nel ristorante, cominciò a capire la fonte dell’altro dolore che sentiva, che le stava montando dentro, come se già lo avesse, lì, fermo, latente, nascosto, che stava aspettando l’ultima goccia per uscire, traboccare, esplodere.
Sino a quel momento era stata trattata da schiava, cagna, bestia, usata, sfruttata, umiliata. Tutte cose che l’avevano segnata, non avrebbe potuto essere diversamente.
Quella sera era diversa, era stata destinata ad essere l’oggetto più basso, nemmeno una sedia, ma solo uno zerbino, utile per la pulizia delle scarpe dei Padroni.
Diversamente dagli altri usi cui era stata abituata, in quello non vi era nemmeno un minimo di interazione o una risposta del gradimento del Padrone per il suo sforzo.
In quell’utilizzo non c’era niente, solo un oggetto, completamente ignorata, come inesistente, come un arredo appena utile e da dimenticare dopo essere entrati, immaginando che i Padroni si stessero recando a tavola già dimentichi di averla calpestata e, soprattutto, che in quel momento era stesa fuori.
Non solo il dolore fisico, quindi, ma l’essere trattata senza considerazione, come inesistente, trasparente.
Iniziò a piangere. I Padroni avrebbero potuto pensare che stesse lacrimando per il dolore. Vedendola esile potevano immaginare quanto fosse difficile reggere il loro peso. O, forse, non se ne accorsero neanche.
Se ne rese conto evidentemente una Padrona che, dopo essersi pulita le scarpe stando sopra di lei, le passò la suola sul viso bagnato dalle lacrime.
Lei non seppe mai cosa le scattò dentro. Nemmeno se fu una cosa improvvisa o graduale.
Se ne accorsero gli Addestratori che da quella sera videro in lei il gran desiderio di compiacere, di servire bene, di impegnarsi al massimo pensando solo al piacere del Padrone, cercandone la soddisfazione.
Un Padrone ebbe l’istinto, vista la sua devozione, di farla destinataria di una carezza e notò subito il suo sguardo da schiava devota.
Ne parlò con una amica Padrona la quale, dopo un servizio del quale era rimasta molto soddisfatta per il risultato ottenuto e l’impegno profuso, l’aveva accarezzata pronunciando un “brava”.
Istintivamente (così era parso) Angélique si era chinata a terra per leccarle i piedi scodinzolando appena, impercettibilmente ma in modo visibile, non sfacciato, quasi elegante, aggraziato.
Anche nel pretendere da lei la soddisfazione del loro piacere sessuale notarono un miglioramento nei modi e nella qualità degli atti.
Lei stessa si rese conto che, benché detestasse quella vita alla quale era costretta (circostanza che, ben sapeva, ai Padroni non interessava), solo era cambiato il modo di servire.
Dopo qualche giorno di attesa e di ulteriore osservazione, il Direttore della scuola la tenne nel suo appartamento un paio di giorni per provarla. Al termine, sulla scheda della schiava segnò il punteggio vicino al massimo con il timbro “schiava di lusso” accanto al pedigree grado 5.
Con soddisfazione inviò la scheda al responsabile di tutte le scuole che tanto si era raccomandato con lui quando ebbe modo di vedere che nella sua scuola vi erano alcune schiave grado 5 laureate e appartenenti alla (ex) classe ricca.
L’ultimo timbro apposto, prima dell’invio, recava la scritta: “pronta per la vendita” ed accanto indicò il prezzo quasi massimo secondo le tabelle in vigore.
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krugher.1863@gmail.com
I Padroni la fecero attendere alcuni giorni per la punizione.
Sapevano che la schiava avrebbe avuto maggior tensione, posto che l’incertezza è peggiore della certezza e che questo l’avrebbe indebolita ancor di più.
Passarono 3 giorni, 3 infiniti giorni scanditi dall’apparente normalità dell'addestramento con le punizioni già note alle quali sempre più raramente era sottoposta atteso il grado di soddisfazione che riusciva a raggiungere nei Padroni.
Il giorno della punizione la lasciarono in cella dal pomeriggio.
Non le dissero che la sera sarebbe stato il suo momento, ingenerando maggior tensione, ma lei lo temeva, fino ad arrivare ad avere la certezza che sarebbe avvenuta quella sera, conservando però in sé quel minimo di speranza che ha il solo risultato di non lasciare spazio alla rassegnazione, a volte molto utile.
La andarono a prendere la sera, all’ora di cena.
La fecero lavare e profumare, ingenerando false convinzioni sul suo uso e che, invece, le avrebbero creato maggiori turbamenti quando avrebbe compreso l’uso al quale era destinata.
Ci sono, a volte, momenti in cui, dopo il loro accadimento, qualcosa è cambiato. Può essere poco o tanto, non ha importanza. Ciò che rileva è che “dopo” qualcosa non è più come “prima”.
Per Angélique quel momento avvenne la sera in cui ricevette la punizione per non essere riuscita a far godere per ultimo il suo Addestratore.
Aveva dolore, stava soffrendo molto, moltissimo. Lei era esile, un corpo curato da sempre con l’esercizio fisico ed una dieta appropriata per essere bella, ma esile.
Sopra di sé, stesa a terra sulla schiena, aveva un Padrone, in piedi. Era pesante, le faceva male. Un piede era sui seni e l’altro sul ventre.
Comprese il motivo per il quale tutti i giorni le avevano fatto fare esercizi per rinforzare gli addominali.
Il Padrone la stava usando come uno zerbino non solo per passarci sopra, ma per pulirsi le scarpe, pesando così su un piede solo e strofinando la suola della scarpa sul corpo della schiava. Prima una e poi l’altra.
Il dolore era enorme, le sembrava di scoppiare, letteralmente. Tratteneva il fiato perché aveva paura a svuotare i polmoni, cosa che faceva quando cambiava il peso del Padrone sullo zerbino umano.
Le sembrava le esplodesse la testa dalla pressione e dal dolore.
Eppure quel Padrone faceva con una calma che a lei sembrava infinita, prima una scarpa e poi l’altra.
Finalmente era sceso e le sembrava di sentirsi sollevare dalla mancanza del peso.
Non la fecero alzare ma dovette restare lì ad aspettare il prossimo Padrone o Padrona che sarebbe arrivato.
Era stata destinata, per tutta la sera, a svolgere l’umiliante e annullante compito di zerbino umano.
Inizialmente non aveva capito perché l’avessero fatta stendere a terra davanti alla porta. Non aveva mai visto quell’uso. In effetti, pensò, non l’aveva visto perché avveniva fuori dal locale ristorante dove lei, solitamente, si trovava assieme alle altre schiave deputate al servizio della cena o del pranzo.
Dopo qualche minuto essere stata sistemata, senza che le avessero spiegato quale sarebbe stato il suo uso, pensò che fosse un ornamento e che, forse, le sarebbero passati sopra con un piede o, alla peggio, si fossero fatti leccare un piede o una scarpa prima di entrare.
Poi vide arrivare il primo Padrone e, con crescente ansia, rimase in attesa di scoprire l’effettivo uso.
Restò basita quando l’uomo, come nulla fosse, le salì sopra con entrambi i piedi ed iniziò a pulirsi le scarpe.
Al momento non ebbe modo di pensare a nulla e, dopo che fu sceso, era troppo presa dal recupero delle forze e dal timore nell’attesa del prossimo perché, a quel punto, era evidente quale fosse la punizione.
Dopo che il secondo Addestratore si era pulito le scarpe prima di entrare nel ristorante, cominciò a capire la fonte dell’altro dolore che sentiva, che le stava montando dentro, come se già lo avesse, lì, fermo, latente, nascosto, che stava aspettando l’ultima goccia per uscire, traboccare, esplodere.
Sino a quel momento era stata trattata da schiava, cagna, bestia, usata, sfruttata, umiliata. Tutte cose che l’avevano segnata, non avrebbe potuto essere diversamente.
Quella sera era diversa, era stata destinata ad essere l’oggetto più basso, nemmeno una sedia, ma solo uno zerbino, utile per la pulizia delle scarpe dei Padroni.
Diversamente dagli altri usi cui era stata abituata, in quello non vi era nemmeno un minimo di interazione o una risposta del gradimento del Padrone per il suo sforzo.
In quell’utilizzo non c’era niente, solo un oggetto, completamente ignorata, come inesistente, come un arredo appena utile e da dimenticare dopo essere entrati, immaginando che i Padroni si stessero recando a tavola già dimentichi di averla calpestata e, soprattutto, che in quel momento era stesa fuori.
Non solo il dolore fisico, quindi, ma l’essere trattata senza considerazione, come inesistente, trasparente.
Iniziò a piangere. I Padroni avrebbero potuto pensare che stesse lacrimando per il dolore. Vedendola esile potevano immaginare quanto fosse difficile reggere il loro peso. O, forse, non se ne accorsero neanche.
Se ne rese conto evidentemente una Padrona che, dopo essersi pulita le scarpe stando sopra di lei, le passò la suola sul viso bagnato dalle lacrime.
Lei non seppe mai cosa le scattò dentro. Nemmeno se fu una cosa improvvisa o graduale.
Se ne accorsero gli Addestratori che da quella sera videro in lei il gran desiderio di compiacere, di servire bene, di impegnarsi al massimo pensando solo al piacere del Padrone, cercandone la soddisfazione.
Un Padrone ebbe l’istinto, vista la sua devozione, di farla destinataria di una carezza e notò subito il suo sguardo da schiava devota.
Ne parlò con una amica Padrona la quale, dopo un servizio del quale era rimasta molto soddisfatta per il risultato ottenuto e l’impegno profuso, l’aveva accarezzata pronunciando un “brava”.
Istintivamente (così era parso) Angélique si era chinata a terra per leccarle i piedi scodinzolando appena, impercettibilmente ma in modo visibile, non sfacciato, quasi elegante, aggraziato.
Anche nel pretendere da lei la soddisfazione del loro piacere sessuale notarono un miglioramento nei modi e nella qualità degli atti.
Lei stessa si rese conto che, benché detestasse quella vita alla quale era costretta (circostanza che, ben sapeva, ai Padroni non interessava), solo era cambiato il modo di servire.
Dopo qualche giorno di attesa e di ulteriore osservazione, il Direttore della scuola la tenne nel suo appartamento un paio di giorni per provarla. Al termine, sulla scheda della schiava segnò il punteggio vicino al massimo con il timbro “schiava di lusso” accanto al pedigree grado 5.
Con soddisfazione inviò la scheda al responsabile di tutte le scuole che tanto si era raccomandato con lui quando ebbe modo di vedere che nella sua scuola vi erano alcune schiave grado 5 laureate e appartenenti alla (ex) classe ricca.
L’ultimo timbro apposto, prima dell’invio, recava la scritta: “pronta per la vendita” ed accanto indicò il prezzo quasi massimo secondo le tabelle in vigore.
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