Moglie ceduta - roulette russa (parte 6)
di
Kugher
genere
sadomaso
Restava da superare la ciotola, che vedeva là, in fondo, irraggiungibile dalla sua volontà, ultimo scalino che ancora faceva fatica a compiere e che al momento la respingeva, lasciandola ferma a terra a cercare conforto nella paglia, quasi questa fosse un luogo sicuro che la preservasse dall’ultimo scalino verso il basso.
Vedeva gli avanzi di cibo della serata, mischiati tutti insieme, tra i quali vi era anche qualche pezzo di carne masticato e sputato. Si chiese se lo avessero fatto perché immangiabile o se li avesse eccitati l’idea di quella bella bestia che mangiava un boccone pieno della loro saliva.
Ricordava quando li aveva visti sputare nel piatto il boccone di carne, e bucce delle mele erano state raccolte in un unico contenitore assieme al resto della pasta fredda e a qualche pezzo di carta che aveva avvolto il pasticcino.
Non si chiese nemmeno se sarebbero venuti a prenderla e a darle qualcosa di “nuovo”. Il suo istinto al momento era concentrato sul presente ed il suo presente respingeva quegli scarti mischiati ad un pacchetto di sigarette accartocciato. Il mozzicone spento nella pasta fredda aveva ancora il rossetto della Padrona, alla quale aveva dovuto pulire le scarpe con la lingua, e che aveva frustato il petto del marito mentre stava avendo l’orgasmo penetrata dal suo cazzo duro come non l’aveva visto mai.
Il tempo sa essere galantuomo ma sa anche stringere una morsa e le pareti di una prigione le cui mura sono invisibili in quanto dentro l’anima.
I secondi che passano sembrano guardarti mentre gli occhi si posano sempre più spesso su quella ciotola piena di scarti e di mozziconi spenti.
Le venne in mente il cane che suo nonno teneva quando lei era piccola e ricordava che nemmeno quella bestiolina aveva mai avuto una ciotola simile, sicuramente più pulita di quella.
Più la sua anima la allontanava da quell’ultimo gradino, più i suoi occhi, su incarico dello stomaco che urlava, guardavano quella che era ormai diventata una condanna che attendeva solo di essere eseguita, per portarla, al guinzaglio, nel pavimento più basso al termine di quelle che pensava sarebbe stato il suo ultimo gradino.
C’è sempre un momento in cui la volontà inizia a vacillare e le certezze sembrano lasciare spazio al compromesso che spinge a cedere solo per qualche boccone, il più pulito, il più normale, il più “umano”.
L’errore che si accorse di avere fatto fu nell’avere resistito e, quando lo stomaco iniziò a dare ordini al cervello oltre che agli occhi, il compromesso aveva rotto gli argini e l’aveva resa disposta a mangiare anche altro, pur di far tacere le urla di fame che la divoravano e che, da quando aveva deciso di cedere, erano diventate più irresistibili.
Provò comunque eccitazione quando, quasi strisciando, si diresse verso quell’ultimo ideale gradino, verso quelle ciotola che la condannava definitivamente ad un ruolo non umano ma che voleva assolutamente raggiungere, col brivido dell’eccitazione.
In alcuni incubi, prima di raggiungere ciò che il sogno ci fa agognare, a pochi millimetri dal traguardo, accade qualcosa che ferma, e la sensazione è quella di essere travolti perché allontana definitivamente ciò che si vedeva come la salvezza e da il senso dell’impossibilità e della condanna, pur con la promessa del desiderato a pochi millimetri.
Tale fu la sua sensazione quanto, strisciando, venne fermata dalla catena che la legava al muro pochi centimetri prima che la sua bocca potesse raggiungere la ciotola, pochi centimetri oltre il limite delle sue mani, che non riuscivano a raggiungerla, nonostante tirasse la catena del collo per allungarsi e guadagnare quella poca distanza da ciò che inizialmente l’aveva schifata e, adesso, era vista come il sogno da raggiungere, la salvezza.
La rabbia le fece dare strattoni alla catena che restava inamovibile come il potere dei suoi Padroni.
Pianse.
Pianse a lungo perché si rese conto dell’inutilità della battaglia tra la sua volontà e quegli scarti schifosi che rappresentavano qualcosa che non voleva ma alla quale si era poi detta disposta a cedere.
Si era vista privare della libertà di scegliere se mangiare o meno.
Si era vista incatenata alla volontà di altri, dei suoi Padroni.
Pianse dalla rabbia, fino ad acquietarsi rassegnandosi al potere che altri avevano su di lei.
Pensò che avrebbe dovuto semplicemente attendere i suoi Padroni in quanto dipendente in tutto da loro e così si rassegnò all’attesa.
Il tempo, che l’aveva condannata, cominciò a scavare ulteriormente e a farle sentire sempre più la sua inutilità, il suo essere oggetto dipendente da altri che avevano, come mai accaduto e provato, il più ampio potere su di lei.
Il pianto lasciò il posto all’eccitazione, alla scoperta di avere ciò che voleva, nella sua forma più forte, estrema.
Si rese però conto che aveva ancora tanta strada da fare.
Lo capì quando vide davanti a sè le scarpe di un Padrone e di una Padrona. Era appena assonnata, stordita dalla debolezza più che dormiente. Alzò appena lo sguardo per vedere dal basso del pavimento, nuda ed ancora segnata, i Padroni vestiti con abiti puliti ed eleganti nella loro sportività.
Si lasciarono guardare fino a che la Padrona non pose il capo sulla sua testa per schiacciargliela sul pavimento, a contatto sempre più con la paglia.
Spingeva, spingeva forte.
Sapeva che le stava facendo male ma spingeva ancora.
Rassegnazione.
Tale era ciò che potrebbe descrivere la passività di Monica.
Non tanto la rassegnazione verso il potere dei Padroni ma verso sé stessa e la sua eccitazione.
Ora la scarpa della Padrona era stata posata a terra, vicinissima alla sua bocca che, senza pensieri che la conducessero, si avvicinò per leccarla, per confermare la sua sottomissione.
Il Padrone tirò la catena per farla alzare in piedi.
La fece posizionare con le braccia sulla parte bassa della finestra e, alla pecorina, si aprì i pantaloni mostrando il frutto della sottomissione della schiava ed iniziò a scoparla tirandole i capelli, come una bestia.
Scaricato il suo piacere nella figa, senza ordini, si accucciò a terra, ai piedi dei Padroni, baciando le scarpe della Padrona e pensando che avrebbe dovuto soddisfare anche lei con la lingua. Cosa che non fece perché la donna dichiarò il suo schifo dall’essere toccata da un animale così sporco.
Prima di allontanarsi, il Padrone col piede avvicinò la ciotola sulla quale Monica si precipitò dopo essersi sentita dire “grazie, Padrone”, quale cosciente testimonianza del completamento del gradino che pensava essere l’ultimo.
Vedeva gli avanzi di cibo della serata, mischiati tutti insieme, tra i quali vi era anche qualche pezzo di carne masticato e sputato. Si chiese se lo avessero fatto perché immangiabile o se li avesse eccitati l’idea di quella bella bestia che mangiava un boccone pieno della loro saliva.
Ricordava quando li aveva visti sputare nel piatto il boccone di carne, e bucce delle mele erano state raccolte in un unico contenitore assieme al resto della pasta fredda e a qualche pezzo di carta che aveva avvolto il pasticcino.
Non si chiese nemmeno se sarebbero venuti a prenderla e a darle qualcosa di “nuovo”. Il suo istinto al momento era concentrato sul presente ed il suo presente respingeva quegli scarti mischiati ad un pacchetto di sigarette accartocciato. Il mozzicone spento nella pasta fredda aveva ancora il rossetto della Padrona, alla quale aveva dovuto pulire le scarpe con la lingua, e che aveva frustato il petto del marito mentre stava avendo l’orgasmo penetrata dal suo cazzo duro come non l’aveva visto mai.
Il tempo sa essere galantuomo ma sa anche stringere una morsa e le pareti di una prigione le cui mura sono invisibili in quanto dentro l’anima.
I secondi che passano sembrano guardarti mentre gli occhi si posano sempre più spesso su quella ciotola piena di scarti e di mozziconi spenti.
Le venne in mente il cane che suo nonno teneva quando lei era piccola e ricordava che nemmeno quella bestiolina aveva mai avuto una ciotola simile, sicuramente più pulita di quella.
Più la sua anima la allontanava da quell’ultimo gradino, più i suoi occhi, su incarico dello stomaco che urlava, guardavano quella che era ormai diventata una condanna che attendeva solo di essere eseguita, per portarla, al guinzaglio, nel pavimento più basso al termine di quelle che pensava sarebbe stato il suo ultimo gradino.
C’è sempre un momento in cui la volontà inizia a vacillare e le certezze sembrano lasciare spazio al compromesso che spinge a cedere solo per qualche boccone, il più pulito, il più normale, il più “umano”.
L’errore che si accorse di avere fatto fu nell’avere resistito e, quando lo stomaco iniziò a dare ordini al cervello oltre che agli occhi, il compromesso aveva rotto gli argini e l’aveva resa disposta a mangiare anche altro, pur di far tacere le urla di fame che la divoravano e che, da quando aveva deciso di cedere, erano diventate più irresistibili.
Provò comunque eccitazione quando, quasi strisciando, si diresse verso quell’ultimo ideale gradino, verso quelle ciotola che la condannava definitivamente ad un ruolo non umano ma che voleva assolutamente raggiungere, col brivido dell’eccitazione.
In alcuni incubi, prima di raggiungere ciò che il sogno ci fa agognare, a pochi millimetri dal traguardo, accade qualcosa che ferma, e la sensazione è quella di essere travolti perché allontana definitivamente ciò che si vedeva come la salvezza e da il senso dell’impossibilità e della condanna, pur con la promessa del desiderato a pochi millimetri.
Tale fu la sua sensazione quanto, strisciando, venne fermata dalla catena che la legava al muro pochi centimetri prima che la sua bocca potesse raggiungere la ciotola, pochi centimetri oltre il limite delle sue mani, che non riuscivano a raggiungerla, nonostante tirasse la catena del collo per allungarsi e guadagnare quella poca distanza da ciò che inizialmente l’aveva schifata e, adesso, era vista come il sogno da raggiungere, la salvezza.
La rabbia le fece dare strattoni alla catena che restava inamovibile come il potere dei suoi Padroni.
Pianse.
Pianse a lungo perché si rese conto dell’inutilità della battaglia tra la sua volontà e quegli scarti schifosi che rappresentavano qualcosa che non voleva ma alla quale si era poi detta disposta a cedere.
Si era vista privare della libertà di scegliere se mangiare o meno.
Si era vista incatenata alla volontà di altri, dei suoi Padroni.
Pianse dalla rabbia, fino ad acquietarsi rassegnandosi al potere che altri avevano su di lei.
Pensò che avrebbe dovuto semplicemente attendere i suoi Padroni in quanto dipendente in tutto da loro e così si rassegnò all’attesa.
Il tempo, che l’aveva condannata, cominciò a scavare ulteriormente e a farle sentire sempre più la sua inutilità, il suo essere oggetto dipendente da altri che avevano, come mai accaduto e provato, il più ampio potere su di lei.
Il pianto lasciò il posto all’eccitazione, alla scoperta di avere ciò che voleva, nella sua forma più forte, estrema.
Si rese però conto che aveva ancora tanta strada da fare.
Lo capì quando vide davanti a sè le scarpe di un Padrone e di una Padrona. Era appena assonnata, stordita dalla debolezza più che dormiente. Alzò appena lo sguardo per vedere dal basso del pavimento, nuda ed ancora segnata, i Padroni vestiti con abiti puliti ed eleganti nella loro sportività.
Si lasciarono guardare fino a che la Padrona non pose il capo sulla sua testa per schiacciargliela sul pavimento, a contatto sempre più con la paglia.
Spingeva, spingeva forte.
Sapeva che le stava facendo male ma spingeva ancora.
Rassegnazione.
Tale era ciò che potrebbe descrivere la passività di Monica.
Non tanto la rassegnazione verso il potere dei Padroni ma verso sé stessa e la sua eccitazione.
Ora la scarpa della Padrona era stata posata a terra, vicinissima alla sua bocca che, senza pensieri che la conducessero, si avvicinò per leccarla, per confermare la sua sottomissione.
Il Padrone tirò la catena per farla alzare in piedi.
La fece posizionare con le braccia sulla parte bassa della finestra e, alla pecorina, si aprì i pantaloni mostrando il frutto della sottomissione della schiava ed iniziò a scoparla tirandole i capelli, come una bestia.
Scaricato il suo piacere nella figa, senza ordini, si accucciò a terra, ai piedi dei Padroni, baciando le scarpe della Padrona e pensando che avrebbe dovuto soddisfare anche lei con la lingua. Cosa che non fece perché la donna dichiarò il suo schifo dall’essere toccata da un animale così sporco.
Prima di allontanarsi, il Padrone col piede avvicinò la ciotola sulla quale Monica si precipitò dopo essersi sentita dire “grazie, Padrone”, quale cosciente testimonianza del completamento del gradino che pensava essere l’ultimo.
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