Moglie ceduta - roulette russa (parte 8)
di
Kugher
genere
sadomaso
Il tempo trascorreva e la sua posizione a terra, ancora nella paglia, comincava a rendere l’eccitazione ed il desiderio di schiavitù sempre più affievolita.
L’emozione ed il piacere iniziarono a lasciare il posto al raziocinio che iniziò a conteggiare il tempo trascorso.
Due erano le notti trascorse in quella stalla e lo sporco sulla pelle iniziò a smettere di eccitarla.
Cominciò a chiamare il marito a voce alta e si allarmò un poco quando non ne sentì la risposta.
La catena, che inizialmente le aveva assicurato la libertà della sua eccitazione, adesso iniziava a darle il senso di fastidiosa prigionia.
Non si inginocchiò con la testa a terra quando i due Padroni vennero da lei, pronta a lamentarsi per il tempo dedicato a quel gioco e che iniziava ad essere eccessivo.
La stupì la mancata reazione degli uomini che, notò dopo, avevano in mano qualcosa che aveva visto solo nei video porno e del quale non ne conosceva il nome, non avendolo mai considerato quale strumento di piacere.
Ne conosceva però l’utilizzo e si spaventò.
I Padroni non ebbero esitazione a toccarla con quell’attrezzo che scaricò nel suo corpo una dose di elettricità sufficiente a dare dolore senza essere dannosa.
Urlò ma ricevette altra scarica e qualche frustata.
“Che cazzo fate stronzi”.
Nella sua testa quella frase avrebbe dovuto segnare la fine del gioco.
“Liberatemi, cazzo!”.
Si stupì nuovamente quando non vide reazioni né stupore sui volti dei due uomini che, anzi, sembrava si aspettassero quella reazione.
La rabbia lasciò il posto al timore prima e, dopo ancora due scariche ed una decina di frustate, alla paura.
Smise di chiamare il marito quando, esausta, crollò a terra colpita da un'altra scarica.
Ammanettata dietro alla schiena, venne portata fuori dalla stalla e trascinata verso la villa.
Il fatto che adesso stesse camminando, contrariamente alle precedenti volte, le diede conferma che non stava andando a “giocare” ma che, semplicemente, la stavano spostando.
Ormai presa dal terrore, cercava di fare resistenza subito trascinata dalla catena quale guinzaglio.
Non ci fu bisogno di usare né il frustino né la scarica elettrica, il cui ricordo era troppo fresco e la visione degli strumenti in mano ai Padroni era di per sé sufficiente a rimuovere ogni pensiero di inutile resistenza.
In casa vide il marito, anch’esso segnato dalle frustate, in una gabbia molto piccola dalle sbarre fatte di ferro più grosso di quanto sarebbe stato necessario per impedire la fuga, peraltro impossibile per il lucchetto che chiudeva la porticina nella quale, ancora con qualche scarica, fu costretta a passare.
Era davvero piccola la gabbia uguale a quella nella quale stava i marito e si accovacciò a fatica spronata da una impaziente Padrona che, una volta chiusa la porta, andò ad accomodarsi in poltrona.
Il marito era silente e passivamente accucciato sul legno che fungeva quale pavimento della gabbia.
Rincuorata dalla lontananza dello strumento elettrico, trovò da qualche parte il coraggio di lamentarsi con una decisione che stupì ella stessa.
Lo sguardo seccato dei Padroni non fu seguito da alcuna minaccia ma da quel maledetto morsetto ai capezzoli ed alle grandi labbra della figa che si era dimenticata di avere da quando l’avevano presa dalla stalla.
Le erano stati messi dopo averla fatta lavare alla solita canna dell’acqua fredda in giardino.
Il telecomando fermò il segnale di chiusura elettrica solo quando, urlando, la schiava giurò di stare zitta, smettendo anche di dimenarsi nella gabbia, attività inutile che dava fastidio ai Padroni.
Con stupore muto, vide entrare una coppia, di evidente altra nazionalità. Probabilmente dell’est.
L’uomo e la donna si fermarono appena davanti alle gabbie, giusto per dedicare una occhiata alle due persone imprigionate all’interno in una posa che denunciava la timorosa rassegnazione.
Le 6 persone si diressero alla grande tavola imbandita che nemmeno fece sentire ai due schiavi la fame in quanto schiacciata dalla paura che attanagliava le viscere.
Attoniti, assistettero alla cena sentendo parlare di tanti argomenti futili ma anche di loro. I Padroni che li avevano avuti a disposizione stavano raccontando chi fossero, cosa facevano nella vita quando erano liberi ed altre informazioni personali che non sapevano avessero.
Non parlarono mai di quanto accaduto in quei giorni. Sarebbe stato argomento inutile posto che la narrazione venne poi affidata alle immagini che li ritraevano sia nella vita quotidiana degli ultimi mesi, da quando il loro contatto si era approfondito, sia in quegli ultimi giorni di schiavitù.
Il terrore divenne insopportabile quando si resero conto di essere stati venduti e che il prezzo era già stato pattuito.
Le urla di entrambi lasciarono il posto al silenzio solo dopo che i Padroni li toccarono ripetutamente con gli strumenti elettrici, fino a rendere insopportabile il dolore.
L’emozione ed il piacere iniziarono a lasciare il posto al raziocinio che iniziò a conteggiare il tempo trascorso.
Due erano le notti trascorse in quella stalla e lo sporco sulla pelle iniziò a smettere di eccitarla.
Cominciò a chiamare il marito a voce alta e si allarmò un poco quando non ne sentì la risposta.
La catena, che inizialmente le aveva assicurato la libertà della sua eccitazione, adesso iniziava a darle il senso di fastidiosa prigionia.
Non si inginocchiò con la testa a terra quando i due Padroni vennero da lei, pronta a lamentarsi per il tempo dedicato a quel gioco e che iniziava ad essere eccessivo.
La stupì la mancata reazione degli uomini che, notò dopo, avevano in mano qualcosa che aveva visto solo nei video porno e del quale non ne conosceva il nome, non avendolo mai considerato quale strumento di piacere.
Ne conosceva però l’utilizzo e si spaventò.
I Padroni non ebbero esitazione a toccarla con quell’attrezzo che scaricò nel suo corpo una dose di elettricità sufficiente a dare dolore senza essere dannosa.
Urlò ma ricevette altra scarica e qualche frustata.
“Che cazzo fate stronzi”.
Nella sua testa quella frase avrebbe dovuto segnare la fine del gioco.
“Liberatemi, cazzo!”.
Si stupì nuovamente quando non vide reazioni né stupore sui volti dei due uomini che, anzi, sembrava si aspettassero quella reazione.
La rabbia lasciò il posto al timore prima e, dopo ancora due scariche ed una decina di frustate, alla paura.
Smise di chiamare il marito quando, esausta, crollò a terra colpita da un'altra scarica.
Ammanettata dietro alla schiena, venne portata fuori dalla stalla e trascinata verso la villa.
Il fatto che adesso stesse camminando, contrariamente alle precedenti volte, le diede conferma che non stava andando a “giocare” ma che, semplicemente, la stavano spostando.
Ormai presa dal terrore, cercava di fare resistenza subito trascinata dalla catena quale guinzaglio.
Non ci fu bisogno di usare né il frustino né la scarica elettrica, il cui ricordo era troppo fresco e la visione degli strumenti in mano ai Padroni era di per sé sufficiente a rimuovere ogni pensiero di inutile resistenza.
In casa vide il marito, anch’esso segnato dalle frustate, in una gabbia molto piccola dalle sbarre fatte di ferro più grosso di quanto sarebbe stato necessario per impedire la fuga, peraltro impossibile per il lucchetto che chiudeva la porticina nella quale, ancora con qualche scarica, fu costretta a passare.
Era davvero piccola la gabbia uguale a quella nella quale stava i marito e si accovacciò a fatica spronata da una impaziente Padrona che, una volta chiusa la porta, andò ad accomodarsi in poltrona.
Il marito era silente e passivamente accucciato sul legno che fungeva quale pavimento della gabbia.
Rincuorata dalla lontananza dello strumento elettrico, trovò da qualche parte il coraggio di lamentarsi con una decisione che stupì ella stessa.
Lo sguardo seccato dei Padroni non fu seguito da alcuna minaccia ma da quel maledetto morsetto ai capezzoli ed alle grandi labbra della figa che si era dimenticata di avere da quando l’avevano presa dalla stalla.
Le erano stati messi dopo averla fatta lavare alla solita canna dell’acqua fredda in giardino.
Il telecomando fermò il segnale di chiusura elettrica solo quando, urlando, la schiava giurò di stare zitta, smettendo anche di dimenarsi nella gabbia, attività inutile che dava fastidio ai Padroni.
Con stupore muto, vide entrare una coppia, di evidente altra nazionalità. Probabilmente dell’est.
L’uomo e la donna si fermarono appena davanti alle gabbie, giusto per dedicare una occhiata alle due persone imprigionate all’interno in una posa che denunciava la timorosa rassegnazione.
Le 6 persone si diressero alla grande tavola imbandita che nemmeno fece sentire ai due schiavi la fame in quanto schiacciata dalla paura che attanagliava le viscere.
Attoniti, assistettero alla cena sentendo parlare di tanti argomenti futili ma anche di loro. I Padroni che li avevano avuti a disposizione stavano raccontando chi fossero, cosa facevano nella vita quando erano liberi ed altre informazioni personali che non sapevano avessero.
Non parlarono mai di quanto accaduto in quei giorni. Sarebbe stato argomento inutile posto che la narrazione venne poi affidata alle immagini che li ritraevano sia nella vita quotidiana degli ultimi mesi, da quando il loro contatto si era approfondito, sia in quegli ultimi giorni di schiavitù.
Il terrore divenne insopportabile quando si resero conto di essere stati venduti e che il prezzo era già stato pattuito.
Le urla di entrambi lasciarono il posto al silenzio solo dopo che i Padroni li toccarono ripetutamente con gli strumenti elettrici, fino a rendere insopportabile il dolore.
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