Schiavo della moglie del mio amico 3
di
astroxman
genere
dominazione
Per contatti cicciopelliccio2@yahoo.com
Soccombere, arrendermi, percepire il completo assoggettamento al suo dominio, sapendo che era esattamente ciò che desiderava.
Vivere questa condizione mi appariva quasi inevitabile, un bisogno ineluttabile radicato nel profondo di me stesso.
Nonostante i miei sforzi per ribellarmi, per sfuggire al suo fascino opprimente, la sua presa ferma mi immobilizzava, schiacciandomi con determinazione e compiacimento, mentre cercavo invano di liberarmi.
E così, quando esausto e privo di forze mi arrendevo a quella pressione, riconoscendone la superiorità e la potenza, finivo per cedere, arrivando persino a leccare con la lingua quel simbolo della mia sottomissione, i suoi piedi odorosi, quasi con un senso di riconoscenza. La sua risata, allora, si infrangeva su di me come un’onda implacabile, capace di annientare ogni futile tentativo di razionalità.
Il suo sguardo sprezzante, intriso di una regale arroganza, fissava la mia resa, mentre io, privo di dignità, mi affannavo ad adorare le sue piante dei piedi con servile dedizione. Leccavo senza sosta ogni centimetro dei suoi piedi, le dita, lo spazio tra ogni dito, succhiando con immenso godimento ogni traccia di sudore dei suoi piedi, annusando profondamente quel profumo di sottomissione,
Quegli occhi, così imponenti e persuasivi, sapevano insinuarsi nella mia debolezza, convincendomi che proprio in quella prigionia risiedeva la mia unica vera libertà.
E così, con crescente abbandono e remissività, mi esponevo alla sua derisione, alla forza di quel piede che reclamava la mia devozione, catturando il ritmo del mio respiro e la brama delle mie labbra.
Cristina mi possedeva e mi usava come voleva. Mi guidava nella sottomissione con profondo amore unito a disprezzo e senso di vendetta. Un giorno mi chiamò dicendomi di farmi trovare alla fermata della metro. La vidi, indossava stivali di pelle nera che tante volte avevo bramato quando ci vedevamo tra coppie, mi fissò con lo sguardo pieno di schifo e disprezzo e mi fece cenno di seguirla.
Ci appartammo in un angolo dove non c’era nessuno, disse semplicemente “giù” e “lecca” mettendomi davanti alla faccia le suole lercie dei suoi stivali. Io come sempre perdevo ogni rispetto di me stesso e con la lingua partivo a leccare dal basso in alto senza sosta, ingoiando ogni traccia di sporco di schifo, di lercio. Lei mi guardava come fossi un patetico perdente, io la guardavo in adorazione. Leccavo e leccavo senza sosta anche l’altra suola. Poi mi diede un calcio per allontanare il mio viso e trasse dalla borsa una bottiglietta di plastica. Solo che dentro non c’era acqua: il colore era giallo sporco e capì immediatamente. Era il suo piscio. Aprì il tappo me la avvicinò e ordinò con autorevolezza: “bevi schifoso”.
Tentennai, era una prova ulteriore di sottomissione bruciante, ma mi feci coraggio. Pressi la bottiglietta, la avvicinai con timore alla bocca e bevvi. Il suo piscio caldo e amaro mi entrò in gola. Provai schifo e vomito, ma il suo sguardo non accettava che mi fermassi. Ne bevvi metà in un sorso poi mi fermai. Volevo vomitare ma allo stesso tempo il mio cazzo si era fatto durissimo. Ripresi a bere fino alla fine. Il suo piscio nella mia bocca nella mia gola nella mia pancia. Adesso le appartenevo completamente. Mi disse soltanto: “Fai schifo, adesso me ne vado tu resta in ginocchio come uno straccione e masturbati. Ti sorveglierò che lo fai mentre me ne vado”. Tirai immediatamente il cazzo fuori e seppur timoroso che qualcuno mi vedesse mi masturbai furiosamente, restando con la testa piegata mentre lei spariva e io avevo un orgasmo e mi riempivo di sborra le mani e i pantaloni.. Ero il suo cane, il suo oggetto, era la mia padrona. Padrona Cristina.
Soccombere, arrendermi, percepire il completo assoggettamento al suo dominio, sapendo che era esattamente ciò che desiderava.
Vivere questa condizione mi appariva quasi inevitabile, un bisogno ineluttabile radicato nel profondo di me stesso.
Nonostante i miei sforzi per ribellarmi, per sfuggire al suo fascino opprimente, la sua presa ferma mi immobilizzava, schiacciandomi con determinazione e compiacimento, mentre cercavo invano di liberarmi.
E così, quando esausto e privo di forze mi arrendevo a quella pressione, riconoscendone la superiorità e la potenza, finivo per cedere, arrivando persino a leccare con la lingua quel simbolo della mia sottomissione, i suoi piedi odorosi, quasi con un senso di riconoscenza. La sua risata, allora, si infrangeva su di me come un’onda implacabile, capace di annientare ogni futile tentativo di razionalità.
Il suo sguardo sprezzante, intriso di una regale arroganza, fissava la mia resa, mentre io, privo di dignità, mi affannavo ad adorare le sue piante dei piedi con servile dedizione. Leccavo senza sosta ogni centimetro dei suoi piedi, le dita, lo spazio tra ogni dito, succhiando con immenso godimento ogni traccia di sudore dei suoi piedi, annusando profondamente quel profumo di sottomissione,
Quegli occhi, così imponenti e persuasivi, sapevano insinuarsi nella mia debolezza, convincendomi che proprio in quella prigionia risiedeva la mia unica vera libertà.
E così, con crescente abbandono e remissività, mi esponevo alla sua derisione, alla forza di quel piede che reclamava la mia devozione, catturando il ritmo del mio respiro e la brama delle mie labbra.
Cristina mi possedeva e mi usava come voleva. Mi guidava nella sottomissione con profondo amore unito a disprezzo e senso di vendetta. Un giorno mi chiamò dicendomi di farmi trovare alla fermata della metro. La vidi, indossava stivali di pelle nera che tante volte avevo bramato quando ci vedevamo tra coppie, mi fissò con lo sguardo pieno di schifo e disprezzo e mi fece cenno di seguirla.
Ci appartammo in un angolo dove non c’era nessuno, disse semplicemente “giù” e “lecca” mettendomi davanti alla faccia le suole lercie dei suoi stivali. Io come sempre perdevo ogni rispetto di me stesso e con la lingua partivo a leccare dal basso in alto senza sosta, ingoiando ogni traccia di sporco di schifo, di lercio. Lei mi guardava come fossi un patetico perdente, io la guardavo in adorazione. Leccavo e leccavo senza sosta anche l’altra suola. Poi mi diede un calcio per allontanare il mio viso e trasse dalla borsa una bottiglietta di plastica. Solo che dentro non c’era acqua: il colore era giallo sporco e capì immediatamente. Era il suo piscio. Aprì il tappo me la avvicinò e ordinò con autorevolezza: “bevi schifoso”.
Tentennai, era una prova ulteriore di sottomissione bruciante, ma mi feci coraggio. Pressi la bottiglietta, la avvicinai con timore alla bocca e bevvi. Il suo piscio caldo e amaro mi entrò in gola. Provai schifo e vomito, ma il suo sguardo non accettava che mi fermassi. Ne bevvi metà in un sorso poi mi fermai. Volevo vomitare ma allo stesso tempo il mio cazzo si era fatto durissimo. Ripresi a bere fino alla fine. Il suo piscio nella mia bocca nella mia gola nella mia pancia. Adesso le appartenevo completamente. Mi disse soltanto: “Fai schifo, adesso me ne vado tu resta in ginocchio come uno straccione e masturbati. Ti sorveglierò che lo fai mentre me ne vado”. Tirai immediatamente il cazzo fuori e seppur timoroso che qualcuno mi vedesse mi masturbai furiosamente, restando con la testa piegata mentre lei spariva e io avevo un orgasmo e mi riempivo di sborra le mani e i pantaloni.. Ero il suo cane, il suo oggetto, era la mia padrona. Padrona Cristina.
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