Ridotta in schiavitù, venduta (parte 11)
di
Kugher
genere
sadomaso
La schiava d’albergo era accucciata sul tappeto tra i divani della suite affittata da Frank e Kalifa. Non stava mai sul letto o sulle poltrone anche in assenza degli ospiti. Una volta le era capitato di addormentarsi e, proprio in quel momento, erano entrati gli inservienti per lasciare un pacco.
Dopo che gli ospiti avevano lasciato la stanza era stata fortemente punita. Le avevano inflitto tanto dolore avendo cura di non lasciare segni sulla pelle che avrebbero potuto non essere graditi dai successivi ospiti.
In attesa dei Padroni si era appisolata non avendo più nulla da fare in stanza. Spettava a lei sistemare il letto, cambiare gli asciugamani, mandare a lavare ciò che i clienti volevano pulito.
Essendo destinata solo per quella camera, passava buona parte del tempo in attesa se i Padroni erano fuori. Poteva capitare che se la portassero quando andavano a fare shopping per farle portare i pacchi. Chi avesse affittato la suite avrebbe potuto farne ciò che voleva essendo compresa nel prezzo. Quando la suite non era occupata, ogni tanto il direttore andava per riposarsi in pausa pranzo e capitava che la usasse. Qualche volta anche sua moglie era andata a divertirsi con lei.
Helga venne svegliata dalla porta che sentì aprire.
Entrò l’addetto al piano con alcuni facchini che portavano una gabbia contenente una schiava. La sistemarono sul tappeto tra i divani dove lei stava attendendo l’arrivo dei Padroni e se ne andarono.
Sapeva che gli ospiti sarebbero andati ad un’asta di schiave di piacere. Li aveva sentiti parlare la sera prima mentre stavano guardando i depliant dopo che la Padrona, appena arrivata dall’Africa, aveva fatto la doccia e, ancora in accappatoio, si era messa sul divano col marito usando lei per appoggiare i piedi ancora umidi.
Istintivamente Helga sentì che odiava quella ragazza.
Appena i facchini se ne andarono, si alzò in piedi per avvicinarsi alla gabbia. Voleva che la vedesse dal basso, imperante su di lei.
Anche se per pochi istanti, fino al momento del rientro dei Padroni, voleva che quella schiava stesse in basso rispetto a lei.
Helga sapeva di essere bella, molto bella, ma sapeva anche che non aveva i requisiti che quella schiava in gabbia poteva vantare e che erano scritti con lettere per lei di fuoco, sulla sua scheda tecnica.
Lei non aveva pedigree, era figlia di immigrati tedeschi dei quali conservava ancora il nome. Non aveva nemmeno una laurea posto che aveva dovuto interrompere gli studi al secondo anno di architettura quando, trovata con una notevole quantità di droga, era stata condannata e ridotta in schiavitù.
Non era riuscita a non ribellarsi a quella condanna, così, aveva “sopportato” la scuola di sottomissione ma non aveva soddisfatto il Padrone che l’aveva comprata e, quindi, rivenduta di seconda mano.
Adesso, schiava d’albergo, difficilmente sarebbe stata acquistata da un Padrone o Padrona perché la sua bellezza e la sottomissione ottenuta successivamente, la rendevano un prezioso oggetto di arredamento di quella suite.
Inoltre difficilmente i Padroni ricchi avrebbero comperato una schiava d’albergo.
Era però stanca di vedere passare Padroni che la consideravano parte di un mobilio alberghiero, al pari di uno scendiletto.
Vedeva le schiave di piacere che accompagnavano i Padroni in quella suite. Vero che venivano trattate da schiave, alcune erano divenute l’animale da compagnia, come un cane dei Padroni ma, tutte, avevano comunque una considerazione maggiore di quanto spettasse a lei e, a volte, soprattutto le cagne, qualche carezza si posava sul loro capo.
Sentiva così di odiare quella schiava destinata a quella coppia di Padroni che, per quanto severi, erano meno cattivi di altri.
Per esaminare la sua scheda si era seduta sulla gabbia lasciando i piedi davanti al viso della schiava. Il ferro della gabbia le faceva male alle natiche ma non mise un cuscino a protezione perché desiderava che, alzando lo sguardo, quell’animale la vedesse dal basso, in quella posizione di apparente superiorità. Provò anche il desiderio, irrealizzabile, di frustarla fino a farla piangere, come era capitato a lei tante volte per mano degli ospiti di quella suite.
La sua illusoria dimostrazione di superiorità terminò quando sentì la porta della suite aprirsi e, in ottemperanza ai suoi doveri, corse ad accogliere i Padroni.
Nella irragionevole e vana speranza di avere qualche considerazione per sé da strappare a quella che sarebbe spettata alla nuova schiava, non solo si prostrò, ma si stese ventre a terra davanti agli ospiti.
Ogni tanto questa sua speranza prendeva il sopravvento, come accadde quella sera in cui fu maggiormente evidente la differenza tra lei e la schiava in gabbia, come se questa le urlasse addosso la sua condizione di mobilio alberghiero.
Sapeva benissimo che sarebbe stato un gesto inutile, anche perchè i Padroni in quel momento avrebbero avuto in mente solo il piacere del nuovo acquisto. Tuttavia l’irrazionalità ha, a volte, esigenze di respiro.
La Padrona, considerando l’atto come dovuto invece che quale ulteriore dimostrazione di essere una brava schiava, salì sulla schiava, su quella che per lei, in quel momento, era solo un accessorio alberghiero, un tappeto umano, camminando su di lei, ponendo un piede sul dorso, facendo un piccolo passo e poi un altro sulle natiche per scendere infine sul pavimento.
Era una donna agiata e pesante, grossa, tantopiù che il marito ricavava la soddisfazione sessuale dalle schiave. Anche lei, parimenti, godeva solo del servizio della loro lingua e del cazzo dello schiavo maschio che possedevano per i lavori più pesanti, avendo una tenuta con giardino e altro terreno circostante.
Le piaceva moltissimo camminare su una schiava, soprattutto se bianca. Lo facevano, lei ed il marito, ordinariamente usando la donna di loro proprietà che avevano acquistato. La facevano stendere e le camminavano sopra a lungo, anche quando la vedevano sfinita dalla fatica. Solo i primissimi tempi pensarono al dolore che avrebbe potuto patire. Poi impararono a disinteressarsene e, anzi, a trarne piacere, quale testimonianza della sua sottomissione e del loro potere di poter usare una donna bianca quale semplice passatoia.
Questo contribuiva a dar loro piacere: il potere che presupponeva l’atto.
La schiava che già avevano era forte, non grassa ma robusta, acquistata per farla lavorare.
Quella sulla quale stava camminando era uno scricciolo, molto esile, probabilmente nemmeno molto alta di statura. Stava sicuramente soffrendo moltissimo e questo le dava il piacere del potere.
Anche il marito aveva iniziato ad apprezzare il tappeto umano e, così, camminò anch’egli sulla schiava bionda a terra.
Entrambi i Padroni si dimenticarono del tappeto umano non appena scesi per concentrarsi sul recente acquisto.
Helga avvertì che il suo uso era stato parificato a quello di un oggetto, calpestando così, oltre che il suo corpo, anche la sua speranza di essere notata come brava schiava, nel tentativo, mai ammesso coscientemente, di essere un giorno acquistata quale schiava di piacere da qualche ospite colpito dalla sua sottomissione e bellezza, prima che la seconda svanisse all'inesorabile trascorrere del tempo.
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krugher.1863@gmail.com
Dopo che gli ospiti avevano lasciato la stanza era stata fortemente punita. Le avevano inflitto tanto dolore avendo cura di non lasciare segni sulla pelle che avrebbero potuto non essere graditi dai successivi ospiti.
In attesa dei Padroni si era appisolata non avendo più nulla da fare in stanza. Spettava a lei sistemare il letto, cambiare gli asciugamani, mandare a lavare ciò che i clienti volevano pulito.
Essendo destinata solo per quella camera, passava buona parte del tempo in attesa se i Padroni erano fuori. Poteva capitare che se la portassero quando andavano a fare shopping per farle portare i pacchi. Chi avesse affittato la suite avrebbe potuto farne ciò che voleva essendo compresa nel prezzo. Quando la suite non era occupata, ogni tanto il direttore andava per riposarsi in pausa pranzo e capitava che la usasse. Qualche volta anche sua moglie era andata a divertirsi con lei.
Helga venne svegliata dalla porta che sentì aprire.
Entrò l’addetto al piano con alcuni facchini che portavano una gabbia contenente una schiava. La sistemarono sul tappeto tra i divani dove lei stava attendendo l’arrivo dei Padroni e se ne andarono.
Sapeva che gli ospiti sarebbero andati ad un’asta di schiave di piacere. Li aveva sentiti parlare la sera prima mentre stavano guardando i depliant dopo che la Padrona, appena arrivata dall’Africa, aveva fatto la doccia e, ancora in accappatoio, si era messa sul divano col marito usando lei per appoggiare i piedi ancora umidi.
Istintivamente Helga sentì che odiava quella ragazza.
Appena i facchini se ne andarono, si alzò in piedi per avvicinarsi alla gabbia. Voleva che la vedesse dal basso, imperante su di lei.
Anche se per pochi istanti, fino al momento del rientro dei Padroni, voleva che quella schiava stesse in basso rispetto a lei.
Helga sapeva di essere bella, molto bella, ma sapeva anche che non aveva i requisiti che quella schiava in gabbia poteva vantare e che erano scritti con lettere per lei di fuoco, sulla sua scheda tecnica.
Lei non aveva pedigree, era figlia di immigrati tedeschi dei quali conservava ancora il nome. Non aveva nemmeno una laurea posto che aveva dovuto interrompere gli studi al secondo anno di architettura quando, trovata con una notevole quantità di droga, era stata condannata e ridotta in schiavitù.
Non era riuscita a non ribellarsi a quella condanna, così, aveva “sopportato” la scuola di sottomissione ma non aveva soddisfatto il Padrone che l’aveva comprata e, quindi, rivenduta di seconda mano.
Adesso, schiava d’albergo, difficilmente sarebbe stata acquistata da un Padrone o Padrona perché la sua bellezza e la sottomissione ottenuta successivamente, la rendevano un prezioso oggetto di arredamento di quella suite.
Inoltre difficilmente i Padroni ricchi avrebbero comperato una schiava d’albergo.
Era però stanca di vedere passare Padroni che la consideravano parte di un mobilio alberghiero, al pari di uno scendiletto.
Vedeva le schiave di piacere che accompagnavano i Padroni in quella suite. Vero che venivano trattate da schiave, alcune erano divenute l’animale da compagnia, come un cane dei Padroni ma, tutte, avevano comunque una considerazione maggiore di quanto spettasse a lei e, a volte, soprattutto le cagne, qualche carezza si posava sul loro capo.
Sentiva così di odiare quella schiava destinata a quella coppia di Padroni che, per quanto severi, erano meno cattivi di altri.
Per esaminare la sua scheda si era seduta sulla gabbia lasciando i piedi davanti al viso della schiava. Il ferro della gabbia le faceva male alle natiche ma non mise un cuscino a protezione perché desiderava che, alzando lo sguardo, quell’animale la vedesse dal basso, in quella posizione di apparente superiorità. Provò anche il desiderio, irrealizzabile, di frustarla fino a farla piangere, come era capitato a lei tante volte per mano degli ospiti di quella suite.
La sua illusoria dimostrazione di superiorità terminò quando sentì la porta della suite aprirsi e, in ottemperanza ai suoi doveri, corse ad accogliere i Padroni.
Nella irragionevole e vana speranza di avere qualche considerazione per sé da strappare a quella che sarebbe spettata alla nuova schiava, non solo si prostrò, ma si stese ventre a terra davanti agli ospiti.
Ogni tanto questa sua speranza prendeva il sopravvento, come accadde quella sera in cui fu maggiormente evidente la differenza tra lei e la schiava in gabbia, come se questa le urlasse addosso la sua condizione di mobilio alberghiero.
Sapeva benissimo che sarebbe stato un gesto inutile, anche perchè i Padroni in quel momento avrebbero avuto in mente solo il piacere del nuovo acquisto. Tuttavia l’irrazionalità ha, a volte, esigenze di respiro.
La Padrona, considerando l’atto come dovuto invece che quale ulteriore dimostrazione di essere una brava schiava, salì sulla schiava, su quella che per lei, in quel momento, era solo un accessorio alberghiero, un tappeto umano, camminando su di lei, ponendo un piede sul dorso, facendo un piccolo passo e poi un altro sulle natiche per scendere infine sul pavimento.
Era una donna agiata e pesante, grossa, tantopiù che il marito ricavava la soddisfazione sessuale dalle schiave. Anche lei, parimenti, godeva solo del servizio della loro lingua e del cazzo dello schiavo maschio che possedevano per i lavori più pesanti, avendo una tenuta con giardino e altro terreno circostante.
Le piaceva moltissimo camminare su una schiava, soprattutto se bianca. Lo facevano, lei ed il marito, ordinariamente usando la donna di loro proprietà che avevano acquistato. La facevano stendere e le camminavano sopra a lungo, anche quando la vedevano sfinita dalla fatica. Solo i primissimi tempi pensarono al dolore che avrebbe potuto patire. Poi impararono a disinteressarsene e, anzi, a trarne piacere, quale testimonianza della sua sottomissione e del loro potere di poter usare una donna bianca quale semplice passatoia.
Questo contribuiva a dar loro piacere: il potere che presupponeva l’atto.
La schiava che già avevano era forte, non grassa ma robusta, acquistata per farla lavorare.
Quella sulla quale stava camminando era uno scricciolo, molto esile, probabilmente nemmeno molto alta di statura. Stava sicuramente soffrendo moltissimo e questo le dava il piacere del potere.
Anche il marito aveva iniziato ad apprezzare il tappeto umano e, così, camminò anch’egli sulla schiava bionda a terra.
Entrambi i Padroni si dimenticarono del tappeto umano non appena scesi per concentrarsi sul recente acquisto.
Helga avvertì che il suo uso era stato parificato a quello di un oggetto, calpestando così, oltre che il suo corpo, anche la sua speranza di essere notata come brava schiava, nel tentativo, mai ammesso coscientemente, di essere un giorno acquistata quale schiava di piacere da qualche ospite colpito dalla sua sottomissione e bellezza, prima che la seconda svanisse all'inesorabile trascorrere del tempo.
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