Schiava dell'amica e dei suoi genitori (parte 9)

di
genere
sadomaso

Noemi ed Isabella erano eccitate mentre andavano al supermercato con la schiava rinchiusa nella gabbia nel bagagliaio. In realtà lo erano già da qualche ora e l’emozione cresceva proporzionalmente al ridursi del tempo che le separava dall’avventura.
Non erano riuscite a resistere a quel senso di umido tra le cosce nel vivere quella situazione di superiorità e, soprattutto, potere su un’altra persona.
Tante volte ultimamente avevano dovuto fare forza a loro stesse per non abusare del potere che la legge dava loro, ancora per un residuo di quelle convinzioni che per anni li avevano guidati, fino a che non furono loro stesse a trovarsi per casa o, meglio, ai piedi, una giovane schiava.
L’idea di avere una persona, nuda, dipendente dalla loro volontà, in una gabbia nel bagagliaio aveva prodotto una eccitazione nuova, più piena, forte, perché maggiormente dava a loro il senso del potere su Erica e, soprattutto, dell’enorme differenza tra loro e la ragazza.
Un conto era viverla a casa, essere serviti da una ragazza vestita, che non nega mai nessun servizio ed è gentile in ogni atto, ma che comunque viene trattata quasi come una di famiglia.
In quel momento no, era diverso, il senso del potere era più forte, pareva avesse un odore suo, l’odore dell’eccitazione, come quello che si sente quando ci si trova con un uomo in una camera da letto, forte come il desiderio che preme e la figa bagnata dalla prepotenza della voglia di essere riempita.
Quello era l’odore che sentivano, che aleggiava nell’aria, almeno nell’abitacolo, dove potevano stare loro, le Padrone.
Gli atti sono importanti e, a volte, più dei pensieri, perché con questi si può barare, far finta di non vedere, dare una lettura diversa. Una schiava nel bagagliaio invece è forte come il mare in tempesta che si sbatte sugli scogli.
Non puoi ignorarla e ci devi fare i conti, quei conti che ti portano in una sola direzione, perché se lei è la schiava, chi ce l’ha messa sono le Padrone.
Fu così che dovettero fare uscire ciò che il pensiero aveva tenuto nascosto, quel desiderio che l’eccitazione spinge e la testa reprime, ma è la prima che fa vedere le cose come sono, perché ha bisogno di smettere di essere trattenuta, come un cavallo che alle briglie freme e strattona per poter correre.
Il discorso andò necessariamente verso ciò che intimamente da tempo desideravano, cioè la loro qualificazione.
Fu Isabella a parlare, l’amica di infanzia di Erica, della schiava, quella che, essendo giovane, ha la passione forte, ancor più potente, intrattenibile.
“Mamma, in pubblico non possiamo permetterle di chiamarci per nome. Dovrà rivolgersi a noi con il termine giusto: Padrona, e con la dovuta deferenza”.
Isabella non stava assolutamente pensando alle apparenze. Isabella pensava che lei voleva essere chiamata Padrona, perché la sua amica era la sua schiava.
Fu come se fosse stata varcata una soglia. Dopo, non fu più come prima.
Adesso la stavano vivendo e, in quanto forte e attuale, la situazione era calda, accesa, eccitante.
“Hai ragione Isa, dovrà chiamarci Padrona”.
Isabella spinse ancora.
“Le altre schiave usano il lei. Dovrà farlo anche la nostra”.
Noemi si rese conto che sua figlia aveva dato voce ai suoi pensieri che, quindi, non volle fermare.
“Condivido anche io”.
Non si preoccuparono se Erica stesse o meno ascoltando. Non avevano un peso solo le parole, quanto il tono, che era quello di chi è convinta che ciò che è stato detto sia la cosa giusta, anzi, l’unica possibile.
“Mamma, fermiamoci a bere un caffè”.
Parcheggiarono e scesero, chiudendo l’auto.
Nessuna delle due pensò di far scendere la schiava che, quindi, per loro non era più “Erica”.
Nemmeno le dissero dove stessero andando. Non pensarono nemmeno se da dietro avesse o meno sentito per quale motivo si stessero fermando.
Non pensarono proprio a lei, dando per scontato che la schiava resti in auto e non necessita che venga informata delle decisioni delle Padrone.
Fu eccitante per entrambe stare tranquillamente sedute al tavolino del bar, prendersi il tempo che desideravano, andare in bagno e fare le cose con la calma dovuta, mentre una schiava era nel bagagliaio della loro auto. Magari aveva sete o desiderio di andare in bagno, ma loro avevano deciso di privarla della soddisfazione di queste esigenze, anzi, di ignorarle proprio.
Questo atto diede loro maggiormente il senso del potere che di fatto avevano e che non avevano mai esercitato. Sapendo che nessuno avrebbe potuto rimproverare loro nulla, in quanto avevano il diritto di scegliere per la loro schiava.
Faceva caldo e non avevano pensato di lasciare giù i finestrini, non essendo abituate a lasciare schiave in auto. Quando era loro venuto in mente erano già nel bar, ma nessuna delle due aveva voglia di tornare al parcheggio.
“Non staremo via molto. Non fa nulla se soffrirà un po’”.
“Sì, non dobbiamo preoccuparci della sua sofferenza, è solo una schiava e deve abituarsi sempre più a soffrire per noi, Padrone”.
Isabella aveva le mutandine bagnate dall’eccitazione che le era divenuta incontenibile, come se le si fosse aperta la porta del piacere.
Tornata dal bagno, aprì la borsetta per far vedere alla mamma che se le era tolte.
“Sono fradice di eccitazione”.
A Noemi brillarono gli occhi, confermando alla figlia che lei si stava trovando nella stessa situazione.
Questa complicità eccitò maggiormente Isabella che prese per mano la mamma invitandola a tornare in auto.
Aprì il portellone posteriore dove c’era la gabbia con dentro la schiava.
L’abitacolo era molto caldo e la ragazza umida di sudore. Fu evidente il suo sollievo quando fu investita dall’aria fresca. Non si chiesero cosa stesse pensando, se fosse basita, frastornata, impaurita. Non interessava nulla di quanto potesse pensare o provare.
La ragazza disse che aveva avuto molto caldo, chiusa con su tutti i finestrini.
Isabella la ignorò, prese le mutandine dalla borsa e aprì il lucchetto che teneva chiusa la gabbia.
“Apri la bocca, schiava”.
Le infilò in bocca le sue mutandine fradice, richiuse il portello della gabbia e, poi, richiuse il lucchetto.
La funzione del lucchetto era quella di sottolineare maggiormente il potere di qualcuno di chiudere dentro qualcun altra: il potere della Padrona, sulla schiava.
Provarono piacere nell’aver constatato la sofferenza di Erica, chiusa al caldo, mentre loro si riposavano comodamente sedute al bar sapendola in attesa.
“Mamma, anche a casa potremmo iniziare a farla soffrire per il nostro divertimento”.
“Sì, sarà eccitante”.
La porta che avevano varcato, ormai era chiusa alle loro spalle, definitivamente.
Lei e sua madre non solo smisero di mentire a sé stesse ma anche, e soprattutto, l’un l’altra.
Prendere coscienza di avere passato un confine è un conto, riuscire ad esternare che quel passaggio, fino a mesi addietro considerato un tabù, desse loro una forte eccitazione, è altra cosa, annulla quel residuo di resistenza nella coscienza nell’accertare la condivisione delle emozioni, dove la forza dell’eccitazione supera ogni altra cosa.
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2022-12-05
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