Schiava in carcere (parte 4)
di
Kugher
genere
sadomaso
Una delle due lampadine a soffitto era bruciata. L’altra, tuttavia, in quel momento non serviva a granché visto che era appena iniziato il pomeriggio.
Michelle aveva il respiro affannato e si stupì nel ritrovarsi ad osservare quella cazzo di lampadina ed il muro tutto scrostato che aspettava da anni una bella imbiancata, fosse anche solo per cancellare tutte le scritte che sembravano molto datate.
Le capitava di cercare di estraniarsi in momenti come quello e ci riusciva fino a che il dolore non iniziava ad essere troppo forte.
Ogni volta trovava assurdo concentrarsi sul muro bisognoso di manutenzione, identico da qualche mese e che conosceva a memoria, mentre, stesa di schiena sulla panca, aveva sopra di sè la sua Padrona comodamente seduta mentre parlava a chi le stava di fronte.
Lei stessa si era offerta per quell’umiliante e doloroso servizio.
La sua Padrona non le ordinava mai nulla in quanto si eccitava a vedere come lei si sottometteva in vari modi per avere la sua protezione.
Ormai Michelle aveva imparato a comportarsi come ci si aspettava da lei.
Quando la Padrona voleva i suoi servizi sessuali, semplicemente le faceva capire il desiderio, magari allargando un poco le cosce e lasciando a lei l’iniziativa di servirla.
La eccitava troppo la “spontanea” umiliazione.
Se non si divertiva abbastanza o si annoiava, iniziava ad allentare la protezione.
Accadde così qualche mese addietro quando, stufa delle solite prostrazioni, complice un certo rilassamento notato in Michelle che cominciava a dare per scontata la protezione ricevuta, allentò le maglie del controllo.
Le altre detenute capivano subito cosa stava accadendo e cominciavano ad approfittarne per divertirsi con quella bella donna. Accadde un giorno nel corridoio quando 5 detenute la fermarono e, prima spingendola e dandole qualche schiaffo, la costrinsero, tirandola per i capelli, a stendersi a terra sulla schiena.
A quel punto si divertirono a calpestarla, camminandole sopra senza togliersi le scarpe. Una le pose anche il piede sulla guancia e le camminò sul viso procurandole un forte grido di dolore che le costò un calcio al fianco per ottenere il silenzio.
Irma la rossa, lesbica ancor prima della sua reclusione, le si sedette sul viso per farsi leccare mentre le altre continuavano a divertirsi.
Irma le stava tirando i capelli e muoveva la figa per meglio trarre piacere dalla lingua tirata fuori.
Tutte traevano piacere anche dal fatto di usare la schiava di Vincenza che in quei giorni aveva allentato le maglie del controllo, lasciando la possibilità ad alcune di divertirsi.
Sapevano quale fosse lo scopo di quelle pause nella protezione, ne approfittavano in maniera sempre più sadica.
Alla terza che le si sedette sul viso per farsela leccare, Michelle venne salvata dagli agenti che non poterono più far finta di nulla in quanto la schiava, nonostante gli schiaffi, urlava troppo per il dolore.
Liberata dalle angherie, non vide e non sentì nulla nel tratto che dovette percorrere per recarsi ad implorare Vincenza.
Conscia della sua mancanza per non avere servito adeguatamente la sua Padrona, ebbe il timore di non ricevere il perdono e, quindi, di vedersi venire meno la protezione.
Il tempo della detenzione aveva fatto perdere la luminosità della sua bellezza che l’aveva caratterizzata al suo arrivo. Restava pur sempre una donna non comune, ma temeva che non fosse più sufficiente. Cercava, per quanto possibile, di conservare integra la sua estetica in quanto temeva che, venendo meno, la sua Padrona avrebbe potuto perdere interesse in lei.
Interessata a lei c’era anche la Napoletana, questo il suo soprannome. Quella donna le faceva molta paura. Era diversa dalla sua Padrona che con lei invece si divertiva come il gatto col topo.
La Napoletana era crudele, cattiva, sadica e su di lei aveva messo gli occhi sia per poter soddisfare il suo sadismo, sia per avere qualcosa che attualmente apparteneva ad una sua nemica.
Lei era l’unica schiava totale nel carcere e tutte sapevano che chiunque l’avesse presa se ne sarebbe potuta servire a piacimento perché lei non aveva la forza di reagire.
La tensione per avere scontentato la sua Padrona fu maggiore rispetto al dolore provato che, in quel momento, nemmeno sentiva più, ormai concentrata nel sottomettersi con la speranza di venire nuovamente ammessa al servizio di quella donna.
Passando davanti alle finestre non guardò neppure la strada oltre le mura che ultimamente osservava con sempre più distacco, come cosa lontana sulla quale transitavano persone lontane.
In quel momento il suo mondo era solo quel corridoio che la divideva dai piedi della sua Padrona, dalla sua schiavitù che le desse la libertà di vivere serena dentro le mura, preferendo di gran lunga il servizio e la sottomissione concentrata in poche ore al giorno.
Tra gli scherni delle compagne di cella, ancor prima di varcare la soglia, si pose a 4 zampe. Quando vide Vincenza, che volutamente la ignorava, si rivide tappeto pochi minuti prima mentre le aguzzine le camminavano sopra calpestando la sua dignità, ancor più di quanto lei stessa se la calpestasse prestandosi quale cuscino per i piedi della sua Padrona, con la falsa convinzione di essere stata una sua scelta.
Il cuore cominciò a batterle ancor più forte rispetto al ritmo che già le sembrava le stesse spaccando il petto.
Vedersi ignorata dopo che negli ultimi tempi, al suo ingresso, almeno si vedeva destinataria di un sorriso, le fece temere di poter essere rifiutata da quella donna dalla quale aveva deciso di dipendere affidando a lei la sua serenità invece di conquistarsela.
Si sdraiò a terra sul ventre ancora dolorante e cominciò a strisciare, mentre le altre donne in cella la spintonavano coi piedi col risultato di alimentare la sua ansia e di farle raggiungere la Padrona con la testa ancora più china, tentando di leccarle la parte più bassa delle scarpe, quella a contatto col pavimento, per testimoniare la sua devozione.
Ancora venne ignorata e cercò di infilare la sua lingua sotto le scarpe, soprattutto quando vide che la donna alzò appena il tacco, approfittandone per infilare sotto la lingua e leccarglielo.
Avendo colto l’interesse della Padrona, Michelle si stese a terra, sulla schiena.
Vincenza a questo punto la guardò dall’alto e poi prese lei l’iniziativa alzando un piede e posandolo sulla gola della sua schiava.
La guardava con sguardo duro, severo, quasi volesse trasmetterle il rimprovero per non essere stata sufficientemente devota e umile. Non le staccava gli occhi fermi da dosso, con lo sguardo forgiato da anni di vita da sola, circondata da persone che non le volevano bene ma la temevano, occhi duri per nascondere qualsiasi cosa dentro le passasse, ivi compresa la solitudine.
Non voleva bene a quella donna sotto il suo piede. Per lei era solo un cane ma, come tutti i cani, le dava, con la sua devozione, la falsa illusione di avere qualcuno che pensa a lei.
Era tutto falso, lei lo sapeva, come tutti gli altri rapporti umani dei quali si circondava. Tuttavia era un timore che si manifestava in maniera diversa, con una devozione simile a quella dei cani e le piaceva, perché erano attenzioni verso di lei, benché forzate e di interesse.
Con quello sguardo le voleva rimproverare l’assenza delle dovute attenzioni, con quel minimo di finto calore che le davano.
Solo la Padrona conosceva il significato del suo sguardo.
Michelle vedeva altro. Michelle vedeva lo sguardo duro della Padrona che si aspetta devozione ed obbedienza, lo sguardo di una persona forte che prende ciò che vuole e dalla quale lei dipende. In quello sguardo la schiava vedeva tutta la propria debolezza, la propria paura.
Vincenza cominciò a schiacciare il piede sul collo, fino a renderle difficoltosa la respirazione.
Era un atto di possesso, un atto col quale dimostrava alla schiava e a sé stessa che quella donna sotto il suo piede le apparteneva, ricordandole che le doveva dare quelle attenzioni che lei pretendeva, anche se false.
Michelle in quel piede schiacciato vide solo forza e potere.
Appena liberata, la schiava, vedendo la panca sulla quale solitamente si sedeva la donna, andò a sdraiarvisi sopra, offrendo il suo corpo quale divano sul quale Vincenza andò a sedersi con l’atteggiamento di chi fa ciò che vuole.
In quanto accaduto anche le compagne di cella videro solo forza e potere.
Michelle aveva il respiro affannato e si stupì nel ritrovarsi ad osservare quella cazzo di lampadina ed il muro tutto scrostato che aspettava da anni una bella imbiancata, fosse anche solo per cancellare tutte le scritte che sembravano molto datate.
Le capitava di cercare di estraniarsi in momenti come quello e ci riusciva fino a che il dolore non iniziava ad essere troppo forte.
Ogni volta trovava assurdo concentrarsi sul muro bisognoso di manutenzione, identico da qualche mese e che conosceva a memoria, mentre, stesa di schiena sulla panca, aveva sopra di sè la sua Padrona comodamente seduta mentre parlava a chi le stava di fronte.
Lei stessa si era offerta per quell’umiliante e doloroso servizio.
La sua Padrona non le ordinava mai nulla in quanto si eccitava a vedere come lei si sottometteva in vari modi per avere la sua protezione.
Ormai Michelle aveva imparato a comportarsi come ci si aspettava da lei.
Quando la Padrona voleva i suoi servizi sessuali, semplicemente le faceva capire il desiderio, magari allargando un poco le cosce e lasciando a lei l’iniziativa di servirla.
La eccitava troppo la “spontanea” umiliazione.
Se non si divertiva abbastanza o si annoiava, iniziava ad allentare la protezione.
Accadde così qualche mese addietro quando, stufa delle solite prostrazioni, complice un certo rilassamento notato in Michelle che cominciava a dare per scontata la protezione ricevuta, allentò le maglie del controllo.
Le altre detenute capivano subito cosa stava accadendo e cominciavano ad approfittarne per divertirsi con quella bella donna. Accadde un giorno nel corridoio quando 5 detenute la fermarono e, prima spingendola e dandole qualche schiaffo, la costrinsero, tirandola per i capelli, a stendersi a terra sulla schiena.
A quel punto si divertirono a calpestarla, camminandole sopra senza togliersi le scarpe. Una le pose anche il piede sulla guancia e le camminò sul viso procurandole un forte grido di dolore che le costò un calcio al fianco per ottenere il silenzio.
Irma la rossa, lesbica ancor prima della sua reclusione, le si sedette sul viso per farsi leccare mentre le altre continuavano a divertirsi.
Irma le stava tirando i capelli e muoveva la figa per meglio trarre piacere dalla lingua tirata fuori.
Tutte traevano piacere anche dal fatto di usare la schiava di Vincenza che in quei giorni aveva allentato le maglie del controllo, lasciando la possibilità ad alcune di divertirsi.
Sapevano quale fosse lo scopo di quelle pause nella protezione, ne approfittavano in maniera sempre più sadica.
Alla terza che le si sedette sul viso per farsela leccare, Michelle venne salvata dagli agenti che non poterono più far finta di nulla in quanto la schiava, nonostante gli schiaffi, urlava troppo per il dolore.
Liberata dalle angherie, non vide e non sentì nulla nel tratto che dovette percorrere per recarsi ad implorare Vincenza.
Conscia della sua mancanza per non avere servito adeguatamente la sua Padrona, ebbe il timore di non ricevere il perdono e, quindi, di vedersi venire meno la protezione.
Il tempo della detenzione aveva fatto perdere la luminosità della sua bellezza che l’aveva caratterizzata al suo arrivo. Restava pur sempre una donna non comune, ma temeva che non fosse più sufficiente. Cercava, per quanto possibile, di conservare integra la sua estetica in quanto temeva che, venendo meno, la sua Padrona avrebbe potuto perdere interesse in lei.
Interessata a lei c’era anche la Napoletana, questo il suo soprannome. Quella donna le faceva molta paura. Era diversa dalla sua Padrona che con lei invece si divertiva come il gatto col topo.
La Napoletana era crudele, cattiva, sadica e su di lei aveva messo gli occhi sia per poter soddisfare il suo sadismo, sia per avere qualcosa che attualmente apparteneva ad una sua nemica.
Lei era l’unica schiava totale nel carcere e tutte sapevano che chiunque l’avesse presa se ne sarebbe potuta servire a piacimento perché lei non aveva la forza di reagire.
La tensione per avere scontentato la sua Padrona fu maggiore rispetto al dolore provato che, in quel momento, nemmeno sentiva più, ormai concentrata nel sottomettersi con la speranza di venire nuovamente ammessa al servizio di quella donna.
Passando davanti alle finestre non guardò neppure la strada oltre le mura che ultimamente osservava con sempre più distacco, come cosa lontana sulla quale transitavano persone lontane.
In quel momento il suo mondo era solo quel corridoio che la divideva dai piedi della sua Padrona, dalla sua schiavitù che le desse la libertà di vivere serena dentro le mura, preferendo di gran lunga il servizio e la sottomissione concentrata in poche ore al giorno.
Tra gli scherni delle compagne di cella, ancor prima di varcare la soglia, si pose a 4 zampe. Quando vide Vincenza, che volutamente la ignorava, si rivide tappeto pochi minuti prima mentre le aguzzine le camminavano sopra calpestando la sua dignità, ancor più di quanto lei stessa se la calpestasse prestandosi quale cuscino per i piedi della sua Padrona, con la falsa convinzione di essere stata una sua scelta.
Il cuore cominciò a batterle ancor più forte rispetto al ritmo che già le sembrava le stesse spaccando il petto.
Vedersi ignorata dopo che negli ultimi tempi, al suo ingresso, almeno si vedeva destinataria di un sorriso, le fece temere di poter essere rifiutata da quella donna dalla quale aveva deciso di dipendere affidando a lei la sua serenità invece di conquistarsela.
Si sdraiò a terra sul ventre ancora dolorante e cominciò a strisciare, mentre le altre donne in cella la spintonavano coi piedi col risultato di alimentare la sua ansia e di farle raggiungere la Padrona con la testa ancora più china, tentando di leccarle la parte più bassa delle scarpe, quella a contatto col pavimento, per testimoniare la sua devozione.
Ancora venne ignorata e cercò di infilare la sua lingua sotto le scarpe, soprattutto quando vide che la donna alzò appena il tacco, approfittandone per infilare sotto la lingua e leccarglielo.
Avendo colto l’interesse della Padrona, Michelle si stese a terra, sulla schiena.
Vincenza a questo punto la guardò dall’alto e poi prese lei l’iniziativa alzando un piede e posandolo sulla gola della sua schiava.
La guardava con sguardo duro, severo, quasi volesse trasmetterle il rimprovero per non essere stata sufficientemente devota e umile. Non le staccava gli occhi fermi da dosso, con lo sguardo forgiato da anni di vita da sola, circondata da persone che non le volevano bene ma la temevano, occhi duri per nascondere qualsiasi cosa dentro le passasse, ivi compresa la solitudine.
Non voleva bene a quella donna sotto il suo piede. Per lei era solo un cane ma, come tutti i cani, le dava, con la sua devozione, la falsa illusione di avere qualcuno che pensa a lei.
Era tutto falso, lei lo sapeva, come tutti gli altri rapporti umani dei quali si circondava. Tuttavia era un timore che si manifestava in maniera diversa, con una devozione simile a quella dei cani e le piaceva, perché erano attenzioni verso di lei, benché forzate e di interesse.
Con quello sguardo le voleva rimproverare l’assenza delle dovute attenzioni, con quel minimo di finto calore che le davano.
Solo la Padrona conosceva il significato del suo sguardo.
Michelle vedeva altro. Michelle vedeva lo sguardo duro della Padrona che si aspetta devozione ed obbedienza, lo sguardo di una persona forte che prende ciò che vuole e dalla quale lei dipende. In quello sguardo la schiava vedeva tutta la propria debolezza, la propria paura.
Vincenza cominciò a schiacciare il piede sul collo, fino a renderle difficoltosa la respirazione.
Era un atto di possesso, un atto col quale dimostrava alla schiava e a sé stessa che quella donna sotto il suo piede le apparteneva, ricordandole che le doveva dare quelle attenzioni che lei pretendeva, anche se false.
Michelle in quel piede schiacciato vide solo forza e potere.
Appena liberata, la schiava, vedendo la panca sulla quale solitamente si sedeva la donna, andò a sdraiarvisi sopra, offrendo il suo corpo quale divano sul quale Vincenza andò a sedersi con l’atteggiamento di chi fa ciò che vuole.
In quanto accaduto anche le compagne di cella videro solo forza e potere.
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