La Genovese

di
genere
etero

«Un caffè, per favore.»
La titolare del bar del paese osservò il bancone in marmo scuro con la coda dell’occhio, cercando di individuare la persona che avesse effettuato l’ordine, in mezzo ai due-tre clienti abituali. Una voce nuova, forestiera, garbata, quasi fin troppo discreta. Dopo alcune frazioni di secondo, giunse a fissare una sagoma, in piedi, con gli avambracci poggiati sul marmo. La donna accennò un breve movimento di capo come a indicare che aveva recepito la richiesta e si accingeva a preparare il prodotto richiesto. Contemporaneamente, accolse con molta professionalità un altro paio di comande e annotò tutto con diligenza. «Ecco a lei.» disse subito dopo, servendo la tazzina appena riempita. L'uomo ringraziò con un filo di voce, avvicinò a sé il piattino e afferrò la tazzina con le due dita, cautamente. osservava il vuoto, sorseggiando la bevanda cocente e fumante. Appoggiò le labbra contratte sul bordo della stretta ceramica, inclinandola quel poco che bastava a far scivolare la bevanda giù, dentro la bocca. Quindi, il suo sguardo apparve dirigersi sulle stoviglie appena uscite dalla lavastoviglie posta alle spalle del bancone, sebbene non desse l'impressione di guardare davvero qualcosa. Finito di bere, posò la tazzina e accennò un gesto con la mano destra. La barista si avvicinò alla cassa, aprì il registratore e diede il resto, esclamando «Arrivederci!» «Arrivederci.» Rispose l’uomo, accennando un infinitesimo sorriso di circostanza, dopodiché tornò sui suoi passi e uscì dal locale.
Paf.
Una sonora pacca sul culo. La barista chiuse gli occhi e si sforzò di non sobbalzare, per evitare di essere notata dai clienti. «Calò... Finiscila!» Domandò lei, pizzicando il fianco dell’uomo che le aveva inferto solo un attimo prima quel colpo secco e deciso, mentre cauta cercava di riporre la banconota da cinque euro nella cassa, cercando di non tradire imbarazzo di fronte alla clientela.
«Che vuoi? Ogni tanto ti vedo pensierosa e allora mi viene voglia di stimolarti...!» replicò l’uomo sottovoce, baciandola sulla guancia. Lei sorrise, un po' imbarazzata.
Questo era il loro modo di comunicare e dare affetto. O per lo meno, questo era il modo con cui Calcedonio, per tutti Calò, era solito esprimere affetto alla moglie, sicuro del fatto che nessuno dei clienti potesse vedere, apprezzare o anche solo sbirciare il malizioso intimo gesto, agito in sicurezza quando c’era meno gente e sempre all'ombra dell'alto bancone, che copriva quasi tutto dalla cintola in giù. Di sicuro, rimaneva un gesto azzardato da fare sul luogo di lavoro, specie per il fatto che non fosse un’azione silenziosa, bensì piuttosto fragorosa. Bastava che la natica di sua moglie fosse anche solo più rigida per produrre un rumore caratteristico molto più scrosciante. Oppure, forse ancora più pericoloso, bastava che la donna avesse uno stato di vigilanza più basso, magari addirittura rilassata, per coglierla di sorpresa a tal punto da farle scappare un piccolo gridolino istintuale che avrebbe attratto la curiosità degli astanti.
Tutto questo, d’altronde, a Calcedonio importava poco. Non tanto perché fosse un maschilista retrogrado, quanto piuttosto il fatto che quello era il loro bar. Marito e moglie erano titolari entrambi in egual modo di quell’esercizio, della cassa, della cucina e della caffetteria. Erano una coppia sposata da sei anni, senza figli. Erano nati e cresciuti in quel paesino dell’entroterra e lì erano rimasti, mantenendo quella piccola attività con passione e sacrificio. I concittadini, che si conoscevano bene tutti, li consideravano una coppia perfetta, consacrata da puro amore. Ideale sintesi dell'unione di due famiglie modeste ma per bene. Un amore che rendeva bene anche dal punto di vista economico, essendo il bar principale di quel piccolo comune di montagna, strategicamente posizionato all'ingresso del centro urbano, vicino al rifornitore di benzina e alla caserma dei carabinieri. Un idillio romantico. Una storia che a molti piacerebbe raccontare, a cui mancava un solo tassello importante. «Che aspettate, ancora?» chiedeva in modo incongruo Liborio, camionista, appassionato di Vasco Rossi e di danesi con crema e mele.
«Eh, su, Liborio! Sono mica domande da fare?!» Rispondeva con il sorriso Calò, mentre guardava ammirato la bella moglie cimentarsi nella decorazione artistica di una schiuma di cappuccino. La moglie capì d’esser notata e ricambiò lo sguardo e il sorriso.

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«Ma scusa, figlia mia... Siete belli! Siete giovani! Lavorate tutti e due bene, avete le famiglie che vi possono dare sostegno. Perché aspettare ancora?» lamentava invece la nonna di lei, ottantaseienne, una domenica pomeriggio di qualche settimana più tardi, finito di pranzare. «Ma che pensi, nonna, che io e Calò possiamo permetterci di chiudere il bar, al momento attuale? Con la crisi che c’è?» rispose la barista, sfiorando la mano dell'anziana signora con affetto e riverenza. «Eh, questo lo capisco, figlia mia. Ma lo sai perché lo dico? Perché mi spiace che questo nipote mi deve conoscere solo dalle foto appoggiate sul mobiletto quando sarò già morta!»
In alcune famiglie, specie quelle molto unite, i primi nipoti, siano essi maschi o femmine, diventano in automatico figli a tutti gli effetti. I secondogeniti, invece, sono sempre i piccoli di casa, anche dopo avere raggiunto i trent'anni suonati. La titolare del bar era primogenita di una famiglia di soli maschi e pertanto era legittimamente vista come figlia unica e preziosa agli occhi dell’anziana.
«Ma che vai dicendo, nonna! Questi discorsi non devi neanche farli per scherzo!» protestò la giovane. «Eh, figlia mia, ti pare che io campi ancora per molto? L'altra volta, il medico me lo accennò: Signora, lei eviti di mangiare dolci che altrimenti diventa un problema, con tutte le malattie che ha.» rispose l’anziana signora. «Infatti non dovresti mangiare certe cose.» osservò la nipote. «Si, come no! Abbiamo il bar di famiglia e secondo te io a ottantasei anni suonati dovrei scordarmi che esistono i dolci e magari privarmene?» Osservò. La giovane cercò di replicare. «Ma questo non va bene, nonna. La salute prima di tutto!» «Eh, lo so. Ma tuo marito ogni volta è tanto gentile e ormai la ricotta la fa in un modo…. A proposito, te l’ho detto che gli ho passato io la ricetta?» La giovane nipote guardò il marito in modo vagamente accusatorio. Calò a quel punto, che nel frattempo stava guardando distrattamente i risultati delle partite di calcio, si voltò con espressione colpevole. «Nonna! Questo era il nostro segreto, però!» disse.
Ci furono alcune brevi risate. Tuttavia, nella mente della giovane donna, si palesò improvvisamente un pensiero inquieto. Cercò dunque di distrarsi, cambiando discorso.
«Piuttosto, nonna, di quale medico parlavi, poco fa? Hai sempre detto che il tuo medico fosse scarso, anziano e scorbutico.»
«Non sia mai, quello lì è una cosa inutile! Ti ricordi la sera che mi sentivo poco bene e avevo mal di testa? Poi nella notte chiamai in guardia medica e venne a visitarmi un medico nuovo, molto più simpatico, quello che viene a fare ogni tanto i turni di notte. Mi disse per bene quello che dovevo fare con le mie pillole. La prossima volta mi informo, così se c’è lui mi faccio visitare apposta!»

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«Un caffè, per favore.»
«Prego.» Rispose la barista, mentre porgeva l’ennesimo caffè della mattina. Il garbato uomo fece roteare delicatamente la tazzina, creando un effetto quasi ipnotico. Raggiunta la mescola adeguata, bevve tutto insieme. Domandò infine un bicchiere d'acqua. La barista chiese se preferisse l’acqua liscia o la gassata. «Liscia, grazie.» Afferrò dunque un bicchiere, appoggiando la mano libera sul dispenser e glielo porse, lui ringraziò. Infine, pagò sempre in contanti e uscì dalla porta.
«Arrivederci.» «Buona giornata.» rispose cordialmente la donna.
Paf.
«Calò...» mugugnò lei, leggermente infastidita ma anche insolitamente rinvigorita da quel blitz espresso con il tatto. Effettivamente, sentiva il suo corpo allontanarsi di colpo da un torpore quasi oppiaceo. Il marito le baciò nuovamente la guancia, prima di ritornare a dedicarsi ai clienti, alle paste e ai cornetti. Il pensiero si fece intrusivo, quella mattina. Confuso, nebbioso e inintelligibile. Osservò la porta a vetri richiudersi da sola, per qualche secondo. Riusciva a scorgere la strada e il passaggio delle auto su di essa. Sembrava quasi che aspettasse che qualcosa accadesse, che qualcuno irrompesse di nuovo dentro al locale per rompere la quotidianità, diventata asfissiante. Riuscì a distogliere il pensiero da quel momento di stallo, preparando un latte macchiato, ripiombando così nella realtà di tutti i giorni. La donna si grattò la natica sinistra, ancora finemente pizzicante a seguito dello schiaffo, come a volersi assicurare che la sensazione rimanesse silente e nessuno dei presenti potesse rendersi conto delle attenzioni che la sua pelle, la sua carne, le stavano costantemente richiedendo.

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Quella sera, Calò si accese una sigaretta. I due coniugi avevano già cenato. Lui aveva cucinato, lei aveva sparecchiato. La donna iniziò a scrollare freneticamente sui social con lo smartphone. Era annoiata e stanca, dopo una giornata di lavoro. Tuttavia, non riusciva a stare seduta per via di una non meglio specificata sensazione di tremito, una vibrazione lungo tutto il corpo che non era in grado di gestire stando sulla sedia o sul divano. Indi per cui, si appoggiò con i gomiti sul tavolo inarcando la testa, cercando di fissare il cellulare con gli occhi in una posizione più simile ad un gatto stiracchiato. I feed di instagram, pieni di foto e video tutti uguali, scorrevano veloci e costanti.
Calò, che si trovava fuori in balcone, aspirò una lunga boccata, mentre da lontano riusciva a posare lo sguardo sul sedere della propria consorte, dolcemente in evidenza per via della posizione assunta. Nonostante indossasse un semplice paio di jeans, il taglio “fit” dell'indumento e le generose forme dettate da una vita sedentaria ma pur sempre passata per gran parte in piedi dietro a un bancone, permettevano ai glutei generosi di distribuirsi all’interno dei pantaloni con incredibile grazia e proporzione, diventando una combinazione letale alla vista. La forma del culo di sua moglie era talmente mirabile che Calcedonio prese spunto per realizzare uno dei suoi massimi momenti di soddisfazione professionale: La genovese con ricotta, uno dei dolci più venduti al bar. La frolla levigata e ricoperta di zucchero a velo modellata ad arte riproduceva in modo deliziosamente dettagliato quel meraviglioso paesaggio di curve ondulate esibito dalle natiche della giovane donna, nascondendo oltretutto un cuore caldo, bianco e denso, costituito dal formaggio fresco di pecora. Un peccatuccio di gola e di pensiero. Nulla di palesemente osceno, sia chiaro! La genovese non fu mai rinominata “culo di donna” al contrario di altri dolci della tradizione che invece si ispirano in modo palese ai seni femminili, denominati appunto con vari appellativi tra cui “minne di sant’agata” o “minne di Venere”. Tuttavia, quel dolcetto venduto a tutto il paese era per lui una forte ricompensa non solo economica ma principalmente emotiva, come un proibito e inconfessabile piacere derivante dall’implicita e celata condivisione con degli sconosciuti, camionisti, compaesani e persino familiari stretti. Una “triolagnia”, ovvero la traduzione dall’inglese “cuckolding”, che si limitava alla pasticceria e che non avrebbe mai oltrepassato la soglia del bancone in marmo scuro. Per questo motivo, esistevano le pacche sul culo. Esse servivano a ricordare all'utenza inconsapevole chi fosse l'unico avente diritto ad usufruire del dolce originario. Il dolce dal gusto irriproducibile. Gratificante non tanto per l'esistenza di un ripieno dolce e cremoso da addentare e svelare, quanto piuttosto per la possibilità intima di fungere egli stesso da ripieno. Poiché, in un certo senso, egli voleva essere parte di quel gusto. Per questo motivo, anche quella sera, dopo una giornata di lavoro come tante altre, davanti alla fattualità materiale e lussuriosa, seppur non voluta, delle geometrie pervadenti dei glutei di sua moglie, gettò la sigaretta dal balcone, entrò in casa e si avvicinò con silenzio.
Paf.
La moglie rimase impassibile, continuando a far scorrere il dito sul cellulare. Calò, nel tentativo di stimolare una risposta, carezzò dunque l'altra natica. La moglie a quel punto notò il repentino cambio di approccio. Con la coda dell'occhio cercò di osservare le mosse del marito. Egli si raccolse piegando le gambe, al fine di avvicinare il proprio volto a quelle mirabili felle. Inspirò avidamente col naso quasi fosse un cane da porcini e chiuse gli occhi, emettendo un lungo sospiro, inebriato da cotanta femminilità odorante. «Hai ancora fame, Calò?» domandò la moglie, con un leggero sorriso. «Un po'. Non hai voglia del dolce?» Chiese di rimando il marito, immobile in quella posizione, con entrambe le mani appoggiate sui glutei della donna, con il naso a due centimetri dal centro esatto di quella pagnotta preziosa. «Abbiamo mangiato da poco, tesoro...» cercando forse di minimizzare gli intenti seducenti dell’uomo che, forse, non aveva una grande fantasia erotica ma in compenso mostrava una certa irruenza spavalda. «Ma questa è un'altra fame.» rispose lui, mentre affondava il volto in mezzo alle chiappe. Riguardo all’irruenza spavalda di pocanzi, c’è da dire che Calcedonio era il classico uomo di poche parole e molta sostanza. Ad alcuni questo può apparire buzzurro, banale, maldestro. Per altri, invece, è un sorprendente dono della sintesi. Niente smancerie, niente arzigogoli forzati, niente elucubrazioni a frenare un desiderio. Un treno ad alta velocità senza ammortizzatori. La moglie chiuse gli occhi, mordendosi il labbro. Decise che lo avrebbe lasciato fare, almeno per un po', poiché quelle attenzioni la ammaliavano più di qualsiasi dialogo. Una mano le si intrufolò fin dentro il maglione, esplorando e infine raggiungendo uno dei suoi seni. Si sentì strizzare un capezzolo da un paio di polpastrelli ruvidi. Mugolò leggermente, inarcando la schiena, garantendo dunque una maggiore prensilità. La donna a quel puntò sentì il marito slacciare la cintura. I preliminari sembravano finiti. Lei, in modo automatico, da quella stessa posizione sbottonò i suoi jeans, accompagnandoli fin giù per terra, rivelando quel succoso, delicato e abbondante fondoschiena che fino a quel momento era rimasto compresso e nascosto. La natica nuda orripilò a contatto con l’aria fresca, evocando una lieve e piacevole sensazione di scossa. La sua pelle appariva di un colore rosa candido, quasi tendente al bianco lattescente. Particolare degno di nota era rappresentato da una piccola voglia color caffelatte, quasi come una beffarda ironia della sorte, posizionata sulla natica sinistra, in alto, leggermente decentrata verso l’esterno. Gli occhi di Calò avrebbero potuto brillare di luce propria, talmente era esterrefatto. Tutte le volte in cui ammirava il corpo della moglie, era come fosse la prima volta.
Tale emozione, per lei, era dimostrazione di un amore smisurato. Ogni volta che vedeva negli occhi di Calcedonio quel desiderio genuino, quella passione sincera, lei si sentiva un po' in colpa. Anche quella sera, Calcedonio provo a farle la domanda.
«Tesoro...» disse Calò. «Dimmi amore...» rispose la moglie. «Che ne dici se...» continuò il marito.
«Gioia mia, la prossima volta ci dedichiamo per bene. È già tardi, abbiamo lavorato tanto e vorrei soltanto rilassarmi. Che ne dici se lo facciamo e basta?» tagliò corto la donna.
Rilassarsi non era mica un sinonimo di andare a dormire. Rilassarsi, in quel momento, significava fare sesso alla solita maniera. Posizione classica, un paio di colpi ben assestati, aumento progressivo di velocità, qualche urlo sconclusionato rivolto al cielo in prossimità del culmine del piacere e infine esplosione di tutti gli sfoghi. Le varianti potevano includere un massaggio, un bocchino fatto a due mani, una lappata di fica e a volte perfino il sesso anale. Non c’era quindi davvero tempo per “rilassarsi”, quanto piuttosto per spegnere il cervello e abbandonarsi soltanto alla passione.
Ciò a cui la donna si riferiva intendo il “dedicarsi per bene” in un altro momento era semmai il fare all'amore, ovvero l'estenuante processo, quello sì dal forte impegno mentale, di un atto sessuale mirato, ripetuto e calcolato a scopo riproduttivo. Un appuntamento sempre posticipato, per motivi diversi. Alcune volte avrebbe voluto dedicarsi lei. Altre volte la proposta era di Calcedonio. Finora non si erano mai convinti entrambi nello stesso momento. Evidentemente, rimanevano troppi pensieri, troppe paure. Per cui, era meglio il sesso senza pensieri, più facile, più gestibile. Il volto del marito carico di delusione fece emergere dei rimuginii importanti nella donna; perciò, si convinse che era giusto dedicarsi al pisello del marito in modo più esclusivo, quasi per sdebitarsi di quel diniego. Lo prese in bocca e iniziò a succhiare con foga, cercando di massimizzare l’eccitazione. Accompagnava il movimento tirando lo scroto verso il basso e titillando con la punta della lingua il prepuzio, ormai del tutto scoperto. Il risultato fu che Calcedonio venne dopo pochi minuti. La donna accolse il suo seme caldo in bocca, facendo persino alcune linguacce. Quella sera, niente orgasmo per lei.

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«Un caffè, per favore.»
«Subito.» rispose la barista, rimanendo sovrappensiero. Ripensava alla sera precedente con un senso di sfumato sconforto. I suoi pensieri, sempre impenetrabili, la rendevano nell’ultimo periodo un po’ ansiosa. Lentamente, senza controllare bene la direzione dei suoi movimenti, tentò di appoggiare la tazzina sul piattino che era posto di fronte al cliente.
Paf.
Alcune gocce di caffè bollente rimbalzarono, bagnandole il dorso della mano. Emise un leggero gemito di dolore e ammonì il marito severamente con lo sguardo. Calò, consapevole dell'errore, chiese scusa a bassa voce e tornò a servire gli altri clienti. L'uomo del caffè osservò la scena in rigoroso silenzio. «Mi scusi. Se vuole, glielo rifaccio.»
«No, Macché. Va bene anche questo. Anzi, la ringrazio!»
Appoggiò dunque le labbra al bordo della tazzina, scottandosi. «Attento, è calda!» Disse la donna, chiaramente riferendosi alla ceramica. Non era sicura, tuttavia, di aver collegato in modo univoco la sensazione di calore a quello del materiale con cui erano fatte le tazze da caffè. L’uomo garbato non si scompose più di tanto. Aggrottò le labbra ancora dolenti e poi rivolse uno sguardo abbastanza addolcito, accondiscendente, nei confronti della barista. Quest’ultima aggiunse «Mi scusi! Sa, quando sono appena uscite dalla lavastoviglie sono ancora difficili da toccare. Poco fa mi stavo ustionando perfino io!» disse lei, mentre osservava i gesti del cliente, cercando di dissimulare la sua maldestrezza di un attimo prima.
«Non si preoccupi, sono un recidivo. Più è complicato da bere, più mi piace.» disse l'uomo, mentre manteneva il contatto visivo. La donna ricambiò quello sguardo. Non si sentiva davvero a disagio, sebbene trasparisse una certa tensione. I gesti di lui influenzarono lei a tal punto da attivare quei comportamenti automatici di imitazione, inducendola a portare alla bocca il dorso della mano, precedentemente sporcato dal caffè caldo. La barista si baciò e leccò inavvertitamente nel punto in cui ancora sostava una piccola gocciolina di caffè. In pratica, diventò un caffè condiviso. Solo in un secondo momento si rese conto di quello che aveva appena fatto. Niente di scandaloso, eppure in una circostanza del genere risultava molto più sfacciato di uno schiaffo sul culo. Il cliente pagò come suo solito e salutò cordialmente. La barista ricambiò il saluto dicendo «Alla prossima.» Mentre l’uomo garbato si apprestava a uscire dalla porta del bar, Il culo iniziò a pruderle terribilmente. Si ostinò a non grattarlo, questa volta. Di sicuro quell’uomo aveva visto tutto. La pacca sul sedere, la goccia sulla mano, l’imbarazzo. Avrà pensato che fosse una gabbia di matti trogloditi. L’azione quasi infantile di pulirsi con la bocca quando ci si sporca, anziché usare correttamente un foglio di carta, era una bassezza molto poco professionale e poteva prestarsi a fraintendimenti che lei non intendeva esplicitare. Tuttavia, non sembrava che il cliente fosse uscito indignato. Anzi, sembrava che quella frase, detta sul finire, fosse in un certo senso ricambiata. “Alla prossima.” Cosa le passava per la testa?

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I pensieri stavano affollando sempre di più la mente della donna, che si ritrovò stranamente euforica. La sua testa vorticava, cercando di ripensare a ciò che le aveva dato maggiormente inquietudine nel corso di quella settimana. Masticava nervosamente le unghie, guardando il marito seduto sul divano intento a guardare la TV, dopo cena. Di colpo, un desiderio intenso le partì dal basso ventre, sotto forma di un calore diffuso. «Calò» disse. Il marito accennò un suono vago, senza distogliere lo sguardo dal televisore. «Calò...» ribadì lei, avvicinando la mano all'inguine. «Che c'è, gioia?» Domandò il marito mentre proseguiva col suo zapping. «Calò...» disse la donna per una terza volta, massaggiandosi il pube da sopra la veste. Il marito a quel punto notò la mossa e capì le intenzioni della moglie. Quest'ultima, abbassò le mutandine, rivelando una fica grondante di umori. Iniziò una lenta e circospetta esplorazione digitale, portando istintivamente l’altra mano sulla bocca.
«Vieni qui...» disse, tra un mugolio e l'altro. Il marito, sebbene all'inizio risultasse spiazzato e indeciso sul da farsi, si alzò dal divano e si avvicinò alla moglie carica di eccitazione. Esaminò la situazione: Cosce aperte, gocciolanti, uno sguardo da famelica predatrice. Era un chiaro invito per quello che poteva definirsi la “notte giusta”. Si avvicinò con il viso alla vagina e annusò. La moglie a quel punto smise di toccarsi e tirò a sé il marito da dietro la nuca, facendolo impattare contro le sue grandi labbra.
«Non hai fame, stasera? Perché non mi mangi?» chiese lei. «Certo, amore, per te mangerei tutta la notte a costo di fare indigestione!» disse lui, quasi soffocato da quella mossa improvvisa. Lei chiuse gli occhi e cercò di godersi il momento. L’altra mano era sempre attaccata alle sue labbra e istintivamente iniziò a leccarne il dorso. Si immaginò di assaporare nuovamente quel caffè schizzato per sbaglio. Il marito, il soggiorno e l’intero appartamento vennero sostituiti dal bar, col suo bancone in marmo scuro, davanti al quale c’era lui, il garbato uomo del caffè.
Immaginò di essere seduta sul freddo marmo, con le cosce divaricate, pronta a ricevere le ordinazioni dell'uomo, pronta a offrire il dolce più buono di tutto il paese. Riusciva quasi a immaginare quei lineamenti magnetici del volto dello sconosciuto scomparire in mezzo ai cespugli del suo pube, immerso tra le grandi labbra, con la bocca a operare un delicato, incantevole cunnilingus. Si immaginò sempre lì, distesa sul bancone del bar, mentre l’uomo stavolta non pagava in contanti ma in carne, esibendo una minchia, poiché questo era l’appellativo che andava usato in quel momento, dalle dimensioni quasi spaventose, la quale a quel punto sarebbe stata accolta tra le sue fauci come se da quell’assaggio dipendesse la sua intera esistenza. Riuscì a sentire, come se fosse reale, un sapore intenso di caffè. Era diventata la sua bevanda preferita, lei che pur essendo barista non beveva quasi mai caffè perché la agitava troppo, adesso voleva essere agitata. Voleva quelle palpitazioni. Voleva godere. Le serviva ancora più caffè, a litri, desiderava incontrare di nuovo quell’uomo misterioso e farsi scopare sul bancone del bar, davanti a tutti, mandando al diavolo reputazione e matrimonio. Al diavolo il lavoro. L’unica cosa che importava, in quel momento, era quel cliente, quella fantasia irriproducibile. Iniziò a gemere in modo vistoso. «Sì, così...» diceva la donna, in estasi. Calò era genuinamente soddisfatto del lavoretto che stava svolgendo, pensando di essere diventato una specie di macchina perfetta del sesso orale, pertanto iniziò a premere sull'acceleratore, cercando di far raggiungere l’orgasmo alla sua amata. «No, tesoro...più piano.» lo corresse lei, mentre cercava di non perdere la concentrazione sulla sua fuga fantastica. Adesso era pancia in giù, piegata a novanta sul bancone del bar, con la testa rivolta all’indietro e le dita dell'uomo del caffè dentro la sua bocca, pronto a invaderla. Quelle mani la tiravano sempre più a sé. Il suo pene eretto, nodoso e duro come il marmo del bancone era ormai dentro di lei e induceva con ritmo e costanza. L'immedesimazione si realizzò in modo talmente forte che il suo orgasmo sembrò indipendente rispetto all'opera compiuta del marito, per quanto minuzioso cercasse di coinvolgere clitoride, grandi e piccole labbra, perlustrando ed esplorando fino a lambire i confini della rosella poco più in basso.
A pochi secondi dal tremendo orgasmo, proprio mentre nei suoi mirabolanti sogni erotici il volto dell'uomo del caffè inesorabile si avvicinava al suo, alla ricerca di un etereo, immaginario e immortale bacio adultero al sapor di caffè, la voce di Calò fece ripiombare tutto nella realtà. «Amore, mi sento male.» disse.
«Cosa?» domandò lei, quasi tremando per l'eccitazione residua. «Ho la nausea, mi brucia forte lo stomaco e sento la testa girare.» disse Calò, effettivamente pallido in volto.
«Oddio. Che faccio, chiamo qualcuno?» chiese la moglie allarmata. Il marito non rispose subito, dopo un po’ fece un cenno di sì con la testa. «Chiama... chiama la guardia medica, magari!» disse il marito. «Ma come, a quest'ora?» disse frastornata la moglie, ancora mezza nuda, preoccupatissima.
«Eh, certo! E’ fatta apposta…!» La donna compose quindi il numero del presidio sanitario del paese.
Al telefono rispose una voce assonnata. «Salve. Potrebbe venire? Mio marito si sente male.»
La donna spiegò i sintomi al medico via telefono, cercando di non dire esattamente in che circostanza erano insorti. Dopo essere riuscita a convincerlo, ritornò dal marito e lo fece accomodare sul divano. Si infilò rapidamente la veste che aveva ritrovato per terra, riuscì sistemare alla bell’e meglio anche Calò e aspettò che arrivasse il medico. Passarono una decina di minuti e il campanello suonò. La moglie indossò perfino una vestaglia come ulteriore segno di una pudicizia mista a pentimento, quindi aprì la porta. Un brivido le percorse lungo la schiena. «Salve. Sono il medico, ha chiamato lei, giusto?»
«Si. Ho chiamato io.» disse lei stordita. «Bene. Posso entrare, allora?» domandò il medico, con la valigetta in mano, ancora fermo sulla soglia. La donna sembrava ancora rimbambita, quindi si fece da parte in silenzio e condusse il medico verso il salotto. Il medico poggiò la sua borsa e iniziò a visitare Calò accuratamente. Misurò la pressione, la frequenza, la saturazione. «Ha la pressione un po’ alta, prende farmaci?» «No. Mai avuto bisogno.» «Sarà stata la preoccupazione, io tuttavia la terrei d’occhio più spesso. Ha mangiato pesante?» continuò il sanitario. «Le lasagne.» rispose Calò. «Erano buone?» chiese il medico, cercando di stemperare la tensione. «Buonissime, quelle che fa mia moglie sono insuperabili.» La donna, sentendosi chiamata in causa, volle intervenire. «Ma che dici, Calò. Piuttosto, dottore, che cos’ha mio marito?» disse lei preoccupata. Dopo una rapida anamnesi e un riepilogo dei sintomi, il medico concluse che non c’era molto di cui preoccuparsi e che poteva essere dovuto allo stomaco. «Ah, si! Una volta prendevo i gastroprotettori per via del reflusso, ma negli ultimi tempi sono stato meglio e ho smesso di prenderne.» disse il paziente. «Mmh. Vediamo se con un antiacido la situazione migliora…» prese una bustina dalla borsa e la fece sciogliere in acqua per somministrarla. «…tuttavia, non possiamo escludere del tutto l'origine cardiaca. Consiglierei una visita al Pronto soccorso qualora il problema dovesse persistere. In generale, mangerei più leggero e farei alcune analisi nei prossimi giorni. Comunque sia, la tengo osservata per qualche minuto ancora prima di andarmene, se per lei va bene.» Calò annuì. La donna si mise a sedere, ancora in parte agitata. «Vuole qualcosa? Non so, un caffè?» disse, in stato quasi di confusione mentale, totalmente annebbiata per via del turbinio emotivo. «No, la ringrazio signora. E’ gentile ma a quest’ora poi non riuscirei più a riprendere sonno.» “Che rincoglionita che sono!” Pensò la donna tra sé e sé, mentre si accorgeva che era quasi l’una di notte. «Dottore, ora sto un po’ meglio. Non mi era mai capitato in questo modo così forte.» disse Calò.
«Eh, dipende da tante cose. Stava facendo sforzi di qualche tipo, per caso?» Calò guardò la moglie, imbarazzato. Lei distolse lo sguardo e istintivamente si allacciò la vestaglia. Dopodiché, con orrore si rese conto che le sue mutandine erano rimaste sul divano, accanto al marito convalescente. Si coprì il volto con le mani, rossa come un peperone. Calò comprese la difficoltà della moglie e agguantò l’indumento. Era quasi impossibile che il medico non se ne fosse accorto. Dopo una ventina di minuti, egli si rivolse alla moglie. «Io andrei, signora. Se dovessero ricomparire i sintomi, non esiti a contattarmi, in alternativa chiamate il 118.» «Certo, è stato davvero gentile. La accompagno.» disse la donna, ancora non del tutto ripresa, si muoveva come una ubriaca. «Allora arrivederci, signor Calò.» disse lui. Il marito accennò un saluto con la mano, poi la moglie proseguì insieme al medico fino alla porta d’ingresso. «Allora, beh… Arrivederci!» disse lei, che sentiva le guance infuocate. «Arrivederci, signora. Le auguro una buona notte… e stia tranquilla.» Disse in modo dolce, poi aggiunse, mentre nel frattempo aveva già varcato la soglia. «Scusi se glielo chiedo, ma ero curioso: Come si chiama lei?» La donna trasalì. Non era preparata a una domanda del genere, sebbene potesse essere la domanda più facile in assoluto, le sembrava quasi impossibile concentrarsi in quel momento. «Ah, beh. Io mi chiamo Ambra.» rispose infine, carica di tensione. Il medico si avvicinò e sorrise. «Curioso! Lei e suo marito avete entrambi il nome di una pietra, lo sa?»
«Eh, si. Non tutti ci fanno caso.» rispose Ambra.
«Molto bene.» sorrise il medico, notando il rossore nel volto della donna. «La lascio riposare, allora.» aggiunse. «Dunque, a domani?» chiese Ambra speranzosa. Il medico la guardò un po’ stranito, poi capì a cosa si riferisse e rispose «Certamente, signora. A domani!» Ambra ebbe un balzo allo stomaco, quasi peggio del marito.

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La donna osservò a lungo la porta a vetri del bar, attraverso il quale poteva ammirare il marciapiede e la strada. Non era ancora arrivato, ma sapeva che era questione di pochi minuti.
«Suo marito dov’è stamane, signora?» domandò Liborio, mentre faceva colazione con la sua solita danese con crema e mele. «È rimasto a casa! Ieri ha avuto un brutto attacco di reflusso.» La mente di Ambra ragionava a gran velocità. Ripensò alla sera precedente, all'incontro fortuito col medico. Probabilmente lo stesso medico che aveva visitato la nonna. Ripensò dunque alle parole della nonna e a quel desiderio di veder nascere i nipotini. Cercò dunque di approfondire una volta per tutte quei pensieri tanto confusi. La sensazione sempre taciuta e mai espressa che, in fondo, aveva preferito sposare qualcuno che la amasse alla follia anziché qualcuno da amare. Si sforzò di reprimere quel pensiero, dandosi della stupida, quando un rumore la distrasse. La porta a vetri si aprì, l'uomo del caffè giunse puntuale al solito orario. La donna ebbe un nuovo tuffo al cuore, si sistemò i capelli e accarezzò il freddo marmo scuro del bancone.
«Buongiorno.» disse lui. «B....buongiorno, dottore.» balbettò lei. «Come sta?» disse lui. «Meglio, però è rimasto a casa, sa com'è!» rispose la donna. «Intendevo dire come sta lei.» replicò l’uomo.
«Ah, io sto bene, grazie.» disse Ambra, galvanizzata. «Meglio così. Dunque, vediamo: io prendo il solito caffè, grazie. Stavolta l’orario lo consente!» Ambra sorrise e preparò il caffè con doverosa lentezza e particolare perizia. La mente era lucida, ben concentrata senza le distrazioni delle pacche sul culo da parte del marito ingombrante e affettuoso. Servì il caffè al dottore e ne ammirò il ritualistico sorseggiare. L'uomo ricambiò l’occhiata in modo diretto, stavolta senza dover dissimulare sguardi vacui, indirizzati verso il nulla, poiché nessuna presenza terza poteva alterare quel piccolo momento di colazione. Uno sguardo complice, al sapor di caffè, condito da un silenzio ricco di sensazioni non esplicite ma intense quanto un sogno ad occhi aperti. Quei sorsi sembrarono durare all’infinito. Non appena l'uomo terminò di bere il suo caffè, raccolse al volo con un dito la goccia di liquido che scorreva lungo l'esterno della tazzina e senza interrompere il contatto visivo con la donna la portò alla bocca, gustandone il sapore aromatico. Ambra si morse il labbro, tradendo un certo trasporto. «Senta…» disse l’uomo, mentre il suo sguardo si posava sulla vetrina dei dolci. «Le posso chiedere di mettermi in carta una di quelle genovesi con ricotta? Sembrano davvero deliziose.» aggiunse. «Ma come, ancora non le ha assaggiate? Sono la specialità della casa!» disse lei entusiasta e con un po’ di orgoglio. «Non lo metto in dubbio, sono belle grandi!» Un certo prurito sul culo iniziò nuovamente a manifestarsi. «Le danesi alle mele sono molto più buone, dottore! Garantito!» Intervenne Liborio intrufolandosi nel dialogo a due, ignorandone i molteplici livelli non verbali che lo componevano. Ambra raccolse il dolce e lo incartò con cura. «Le danesi non le facciamo noi...queste invece si!» Liborio fece una faccia perplessa, pur continuando ad addentare la sua colazione. «Quanto le devo?» domandò l'uomo. «Per stavolta tutto offerto.» rispose Ambra.
«E' sicura?» «Certo.» ribadì la donna, con uno sguardo carico di una intensa energia potenziale. «Lei è davvero molto gentile, tuttavia accetto l’offerta del caffè ma non della genovese; Deve poter valere il suo prezzo, vista la bontà, e non vorrei approfittare della sua riconoscenza.» La barista insistette «Mi sembra giusto. Posso tuttavia offrirle questa per stavolta, così lei la assaggia e poi la prossima volta torna e mi dice come le è sembrata, così se le è piaciuta ne prende un’altra?» disse, sorridendo. «Mmh. Si può fare. Sembra una ottima strategia!» ammiccò sorridente l’uomo. Strinse la mano alla barista e infine uscì con l'incarto in mano. Ambra rimase lì a fantasticare ancora un po', fino a che il pizzicore sulla natica non si fece talmente pressante che era convinta di avere ricevuto la pacca più potente di tutte. A quel punto, il suo sguardo si posò sulle genovesi con ricotta. Non le aveva mai guardate così attentamente come in quel momento. Forse, immaginava il dottore mentre ne addentava una. Osservò sempre di più, perdendosi nella vista di decine di dolcetti tutti uguali, tutti stranamente composti e ben separati l’uno dall’altro. Avvicinandosi, notò un particolare: Tutte le genovesi avevano, sulla superficie ricoperta di zucchero a velo, un piccolo e quasi impercettibile segno chiaro-scuro. Sembrava una leggera polvere di caffè. Una piccola macchia che all’inizio aveva pensato si trovasse lì per errore e invece era presente in ognuno dei dolci, sempre nello stesso punto, in alto a sinistra rispetto al solco centrale. Dopo aver capito, si guardò intorno, osservando uno per uno tutti i clienti del locale, per lo più maschi ma anche alcune donne. Una decina erano sempre gli stessi, abituali. Quasi tutti tenevano una genovese in mano, con le labbra coperte di zucchero a velo, alcuni leggevano il giornale, altri conversavano sorseggiando cappuccini e succhi di frutta, in quel chiacchiericcio confuso come sempre di ogni giorno, tutti i giorni.

djhop3128@hnbjm.dpn
scritto il
2024-07-12
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