Les "Cocottes" I. Patrizia.

di
genere
etero

Inizia, con questo mio scritto, una serie di tre racconti in ricordo di quelle "Signorine" o, per meglio scrivere, "Signore", essendo state, tutte, sposate e divorziate, che ebbero ad "allietare" la tetra solitudine dei miei "verdi" anni: "goliardici" e "post goliardici".
Auguro, a tutte loro, un lunga vita in ottima salute, auspicando che abbiano serbato un ricordo, anche minimo, delle ore trascorse insieme.
* * *
Prima di addentrarmi nella narrazione, trovo necessario dilungarmi in una doverosa premessa.
Dopo l'uscita dalla scuola privata, con i conseguenti repentini, vistosi miglioramenti del profitto, la situazione in famiglia si era notevolmente rasserenata: ma solo in apparenza.
Può sembrare incredibile, ma dagli atteggiamenti dei miei genitori, dalle loro parole, traspariva, a mo'
di filigrana, ma in modo del tutto incontrovertibile, come essi stessero aspettando, quasi fosse stata la biblica manna, un qualunque mio fallimento: scolastico prima ed universitario poi.
"Beati pauperes spiritu...".
Dal loro punto di vista, un siffatto evento avrebbe, indubbiamente, fornito il destro per poter proclamare, "ore rotundissimo", la sussistenza della ragione - non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo: in tale ipotesi più che giustificata - per affidare la mia istruzione al "maledetto istituto".
Merita, a questo punto, di essere sottolineato quanto segue.
Da più parti, oltre, beninteso, quella dei miei parenti, ho potuto ascoltare, trasecolando, l'affermazione secondo la quale, l'affidare l'istruzione di un figlio ad una scuola privata tenuta da religiosi, conterrebbe in sé, sempre, e comunque, un intento punitivo o, quanto meno, "correttivo", più o meno occulto, più o meno recondito.
Vieppiù dopo che il ragazzo, o la ragazza, ha da sempre frequentato le scuole pubbliche.
Questo avviene, ogni singola volta, in percentuale ovviamente diversa ma, purtroppo, tutt'altro che irrilevante.
Il tutto si concretizza col sottoporre i malcapitati rampolli alla stolida disciplina vigente in tali istituti, cui si accompagna, sempre e comunque, un ancor più stolido, vieppiù sterile, nozionismo.
Tale stato di cose, è diametralmente antitetico al "modus docendi, et studendi," in vigore nelle scuole pubbliche e, quel ch'è peggio, nelle università.
A ben quarantaquattro anni dalla mia uscita da quella scuola, posso, senza tema di smentita alcuna, affermare che, l'impostazione nozionistica, tanto dell'insegnamento che dello studio, era, ad un tempo, effetto, e causa, di due precise realtà.
"In primis", era effetto della desolante, inguaribile, pigrizia mentale dei docenti, cui si accompagnava il loro pervicace essere abbarbicati a metodi di insegnamento, e di rapporto con gli studenti e con le relative famiglie, che, per quanto riguarda la congregazione religiosa che gestiva il "maledetto istituto", erano stati, inappellabilmente, dichiarati obsoleti fin dal 1940; come riferitomi da non pochi esperti del settore.
Quel ch'è più grave, è dato dal fatto che, da più parti, si vociferava insistentemente come, una rilevante percentuale dei docenti, fosse stata una perfetta sconosciuta presso l'allora Provveditorato agli Studi.
Ciò in quanto, gli stessi sarebbero stati privi tanto della indispensabile laurea, quanto dell'abitazione all'insegnamento, il che li veniva, "ipso facto", a tagliare fuori dai programmi ministeriali di aggiornamento.
"In secundis", era causa della prematura, pericolosissima, "sclerotica progeria", tanto caratteriale e mentale, afferente gli stessi discenti.
Questa, fatalmente, finiva col presentare il suo conto - salatissimo - se non in sede di esame di maturità, di certo negli ambulacri degli atenei,
Tornando al clima della mia famiglia, urge notare come, entrambi i miei parenti, si fossero limitati a frequentare la scuola dell'obbligo, tra l'altro con risultati men che mediocri.
Da ciò deriva come, gli stessi, per forza di cose, non avessero possedeuto alcuna diretta conoscenza delle difficoltà connesse all'ambientamento nella nuova realtà universitaria cui la povera matricola, anche se fortunatamente priva delle "zavorre" sopra descritte, va, da sempre e fisiologicamente, incontro.
Quel che è peggio, sia mia madre che mio padre, non ricorsero o, per meglio scrivere, non vollero ricorrere, ad alcun "consulente qualificato" che avesse illustrato loro le accennate problematiche.
Considero, infine, una ponderosa aggravante, il fatto che, l'"Augusto Genitore", benché fosse stato in contatto, dapprima durante la sua non breve vita militare, poi durante la sua lunga carriera impiegatizia, con superiori tanto diplomati che laureati, non avesse fatto necessario tesoro delle esperienze a lui certamente trasmesse da costoro, applicandomele alla bisogna.
Per tanto, viene a giganteggiare il dubbio circa il carattere, in gran parte, se non totalmente, pretestuoso, dell'atteggiamento di entrambi, volto ad ascrivere, esclusivamente ad una mia, del tutto inesistente o, per esser più precisi, leggendaria, mancanza di impegno, le iniziali difficoltà universitarie.
"Ex hoc, et ergo, propter hoc", mi vidi costretto a trascorrere, gli ultimi due anni del liceo e, vieppiù, tutti gli anni dell'università, chiuso tra le quattro mura delle aule, scolastiche prima ed universitarie poi, e le quattro mura della mia stanza.
Basti pensare che uscivo di casa, per scopi "estranei" allo studio, soltanto la domenica.
Altro che "bei tempi di baldoria, dolce felicità fatta di niente"...come avrebbe detto una vecchia canzone.
L' "hors-d'oeuvre", del modo in cui avrei vissuto gli anni dell'università, mi venne servito il giorno stesso in cui tornai a casa dopo aver completato le pratiche per l'immatricolazione.
Eravamo seduti a tavola, pel pranzo; finito di desinare, mio padre era solito domandarmi in che modo avessi trascorso la mattinata.
Dopo aver appreso che mi ero immatricolato, scegliendo di frequentare la Facoltà di Giurisprudenza, il genitore, assunto un piglio da "Sala del Mappamondo", mi squadro', dall'alto in basso, mi guardò severamente negli occhi, ed esclamò:
- Bene: adesso mettiti i paraocchi e laureati in corso!
Poi, con un tono che non ammetteva repliche, aggiunse:
- Scaldabanchi fuoricorso, in casa mia, non ce li voglio.
Infine, conoscendo la mia, e la sua, opinione su certi "gentiluomini", e "gentildonne", che il destino, "cinico e baro", ci aveva affibbiato quali parenti, per fortuna alla lontana - e quasi a volermi dare una sorta di "zuccherino" - aggiunse:
- Stai pur tranquillo: tra i parenti di tua madre, nessuno, o quasi, riuscirà a laurearsi.
Decisi, "ipso facto" di trasformare i "verba paterna" in un evidente "autogol", il che sarebbe potuto avvenire, solo ed esclusivamente, rispondendo al genitore, per la prima volta in diciannove anni, "per le rime".
Così feci: senza esitazione alcuna e senza por tempo in mezzo.
- Sentite, Papà: se io debba conseguire una laurea purché sia, solo ed esclusivamente per consentirvi di dare "scacco matto", sottolineo: per interposta persona, a quei pezzi di m...dei "cari" parenti di "Maman", domani mattina rassegnerò le dimissioni per cercarmi un posto da spazzino.
Io conseguirò la laurea, e la conseguirò, statene pur certo, solo ed esclusivamente per la mia elevazione, civile, culturale, morale e, "dulcis in fundo", per la mia costruzione professionale!!!
Mio padre non replicò ma, a questo punto, ogni Lettore si sarà fatto un idea, la più precisa, del clima in cui avrei vissuto i successivi anni. Tale stato di cose, decisamente, non avrebbe, in alcun modo, favorito la "socializzazione" con quella che Mao Tze Dong definiva come "l'altra metà del cielo".
Comunque sia, a parte qualche "flirt" senza importanza, circa un anno e mezzo dopo, incontrai quella che presumevo sarebbe stata "la donna della mia vita"...con risultati assolutamente atroci che, tuttavia, come già accennato, mi dettero la rabbiosa forza di sostenere, e superare, ben otto esami in un anno solare!
Ciò premesso, è giunto il momento di entrare "in medias res".
Chiunque, passeggiando per l'antico quartiere romano della "Suburra", si dovesse trovare negli immediati dintorni della "Stazione Cavour" della metropolitana, non potrebbe non notare uno strano edificio.
Alto tre piani e talmente stretto da presentare una sola, piccola, finestra per piano, era quello il palazzetto in cui si celava il "boudoir" di Patrizia.
Vi giunsi, previa consultazione degli annunzi economici di un quotidiano, un giovedì, umido e nebbioso, del dicembre del 1983;
nel pomeriggio del medesimo giorno, cioè, in cui avevo sostenuto ed, ovviamente, superato, l'ultimo esame dell'anno solare.
Varcai, di profilo, lo stretto portoncino verde, e percorsi il breve corridoio che portava alle scale, senza incontrare anima viva. Fu allora che tossicchiai per richiamare l'attenzione: nessuno rispose.
Fu solo dopo che dissi, a voce non troppo alta, la fatidica frase "c'è qualcuno?", che sentii aprire, cigolando, la prima porticina, posta alla sinistra di chi entrava.
La varcai, senza, tuttavia, veder alcuno all'interno.
Entrato che fui, mi vidi davanti una ragazza o, per meglio scrivere, una giovane donna, di circa trent'anni, alta, più o meno, un metro e settanta, che provvide, subito, a richiudere la porta.
Aveva gli occhi color lavanda, la carnagione chiara, i biondi capelli, mechati, acciuffati sulla nuca ed una corporatura tendente al "curvy", pur non potendo, in alcun modo, essere definita come "obesa".
Indossava una sorta di maglione nero, che le arrivava a mezza coscia, di sotto al quale facevano bella mostra di sé due lunghe, stupende, gambe, con i piedi calzati in scarpe nere, dal tacco, invero, non troppo pronunciato.
- Buonasera - dissi - sono venuto per l'annuncio sul giornale...
- Ma prego, si accomodi pure...
Rispose con un abbagliante sorriso.
Ometto i preliminari, invero squallidi, relativi alla tariffa;
quando ci trovammo in camera da letto mi disse:
- Ma...non ti spogli?
- Già...che sciocco...
Mi rendo conto, soltanto oggi, che il mio apparente impaccio, era dovuto al fatto che, per la prima volta, mi trovavo, "vis a vis", con una donna, più o meno, della mia età, pronta ad un rapporto sessuale, sia pure mercenario.
La Signora Dina ha ventun anni più di me, Donna Rebecca diciannove, mentre Patrizia, così mi disse di chiamarsi, ne aveva, a suo dire, solo otto in più...e non li dimostrava, minimamente.
Indossato che ebbi il "costume di Adamo", anche Patrizia si denudò e, con la punta delle dita di entrambe le mani, mi carezzò il torace scendendo sino all'addome.
Subito mi eressi, dolorosamente, e la ragazza, contemplato il risultato della sua "arte", con una voce di una dolcezza quasi materna esclamò:
- Hai visto che bel pisellotto abbiamo fatto?
- Vogliamo mettere il preservativo?
"Bon gre' mal gre'", memore delle libere "cavalcate" nel corpo della Signora Dina, sia pure non del tutto abituato all'idea, acconsentii.
Indossato che ebbi il "guanto di Parigi", Patrizia si accomodò sulla sponda del letto, mi prese lo scettro e lo introdusse nella sua vagina.
Subito cominciai a galoppare in lei alternando piccola e grande velocità.
Nel contempo, quando la coitavo più lentamente, le toccavo le generose mammelle mentre, quando acceleravo, la tenevo per i fianchi.
Si scatenò allora una dolce battaglia tra me, che cercavo di resistere il più possibile, e Patrizia che, adoperando, interamente, ma stavolta "in negativo",la sua "professionalita'", cercava di strappare tutto il mio liquore dalle chiuse del mio corpo per chiudere, alla svelta, il "match"...
Alla fine, esplosi.
Quando l'eiaculazione finì, crollai esausto sul suo seno; lei mi carezzò, un paio di volte, la testa.
Poi, con le ultime forze, mi rialzai per andare a coricarmi sul letto; mi riposai una decina di minuti, mi rivestii e, quando fui sulla porta, Patrizia mi disse:
- E pensare che la tua timidezza mi aveva fatto pensare che fossi un "verginello", invece...
- Beh... debbo dirti che ho avuto un'ottima "nave scuola"...
- Congratulazioni ad entrambi...la prossima volta, faremo sul serio...
E, baciatale la fronte uscii.
* * *
Nei sei anni a seguire, Patrizia offrì l'antidoto della sua amicizia, a conti fatti tutt'altro che superficiale, e del sua "professionalità", a conti fatti decisamente ampia, alla mia tetra e dolorosa solitudine.
Tuttavia seppe, opportunamente, accantonare, nei momenti più "caldi", quella sua dolcezza, tra il materno ed il sororale, per rivelarsi un autentico, perfetto, "animale da letto".
Poi...poi, alla fine del 1989, conobbi quella che sarebbe, effettivamente, diventata "la donna della mia vita" e, per rispetto a lei, smisi di frequentare "certi ambienti".
Incontrai, casualmente, Patrizia, intorno al 1994 circa, nei dintorni della Stazione Centrale, in una giornata di cielo grigio.
Le dissi che mi ero laureato, che avevo iniziato la professione e che avevo conosciuto la futura "Lady Wilfred".
Mi rispose:
- Ricordo...studiavi tanto...
Spero che, tu e la tua fidanzata, vi possiate un giorno sposare...e che vivrete felici...
Notai che, nel dire queste parole, sulla voce di Patrizia era calato come un velo di tristezza e di nostalgica malinconia.
Le baciai, un ultima volta, la fronte e ci lasciammo. Nell'allontanarmi da lei, ebbi la netta sensazione che, in quel preciso momento, la mia, seppure non lieta, giovinezza, si fosse, definitivamente ed irrimediabilmente, conclusa.
Debbo scrivere: purtroppo, senza eccessivi rimpianti.



scritto il
2022-06-10
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