Ceduta ad una asta

di
genere
sadomaso

Ilaria adorava il bagno caldo.
Solitamente, quando il tempo aveva tempo, doveva farsi forza per uscire dalla vasca piena sino all’orlo.
Le piaceva moltissimo il profumo che i sali sciolti rilasciavano nell’aria confondendosi con le note rilassanti della musica di Einaudi, assorbite dall’oscurità artificiale creata nel locale.
Quel giorno no, non aveva il tempo o, meglio, il tempo lo aveva, ma era schiacciato dall’ansia, quell’ansia che la pervadeva, le dava eccitazione, adrenalina, la rendeva nervosa e irrequieta, desiderosa che il tempo passasse e paurosa che il tempo arrivasse.
Non era la prima esperienza di quel tipo. Ne aveva già fatte due e l’adrenalina era andata a mille, un'emozione ed una sensazione incontrollabili, che le sembrava volessero esploderle nel petto.
L’ultima volta si era giurata che non avrebbe più ripetuto quell’avventura.
Era andata bene, ma la tensione dentro era stata fortissima e, per un attimo, aveva anche avuto paura.
Più volte aveva avuto la tentazione di scappare e non lo aveva fatto solo perchè impossibilitata dalla catena che la teneva prigioniera al muro dove, nuda, era stata costretta a stare guardando i segni che il frustino aveva lasciato sulla coscia.
L’emozione provata era stata sufficiente per placarle a lungo i così detti bollenti spiriti.
Da qualche tempo, però, provava nuovamente l’esigenza dell’adrenalina in circolo.
Così si era decisa.
Dedicò lungo tempo alla sua preparazione.
Il suo giovane corpo venne privato, con attenzione maniacale, di tutti i peli inutili.
Mentre si spazzolava i lunghi capelli biondi, per l’agitazione fece cadere la bottiglietta dello smalto rosso che, fortunatamente, era già stato chiuso e non si ruppe. Imprecò quando lo raccolse per riporlo nell’armadietto.
Tornò ad osservare la propria immagine. Monica, la sua parrucchiera, aveva fatto un eccellente lavoro. Curiosa (lei la definiva “pettegola”) come al solito, le aveva chiesto a cosa servisse quel nuovo taglio, avendo intuito che c’era qualcosa nell’aria.
Benché inutili, decise di mettersi comunque le autoreggenti, più per sé stessa che per altri, le piaceva sentirsi bella e sexy e, le sembrava, questo le avrebbe donato una sensazione di sicurezza che non aveva, come se la sensualità avesse potuto darle una forza alla quale, invece, stava per rinunciare donandosi completamente.
Rovistò a lungo nel cassetto per cercare quelle con il disegno in corrispondenza della caviglia.
Prima di sedersi sul letto per infilarle, fece cadere sul pavimento i libri del prossimo esame universitario.
Nei momenti di elevata ansia le cose continuavano a caderle, come se fossero animate di vita propria e con la volontà di crearle intralcio.
Odiava quell’esame, non riusciva a capire bene la materia ma, in quel momento, per lei non erano libri di testo ma, bensì, solo un cumulo di fogli, essendo tutta concentrata su sé stessa e sulla nuova esperienza, ogni volta come fosse la prima mentre si giurava che sarebbe stata l’ultima, sicuramente!.
Quando uscì di casa, la fresca aria d’autunno si insinuò sotto il vestitino leggero, fin sù, ad accarezzare la figa priva di ogni qualsiasi protezione.
Il soprabito scuro copriva appena l’indumento che, a sua volta, copriva appena l’orlo delle autoreggenti.
Le scaldava lo stomaco eccitare, essere guardata, ma quella sera l’emozione era talmente forte da non provare nemmeno piacere per gli sguardi del taxista nello specchietto retrovisore.
Aveva avvisato i suoi genitori che sarebbe stata fuori qualche giorno con amici.
La finzione le impose di portarsi una valigia, nella quale aveva messo pochissimo sapendo che, comunque, tutto sarebbe stato superfluo, tanto più che stava per dimenticarla nel bagagliaio del taxi se non fosse stato per l’autista che, sceso anch’egli, la dovette richiamare mentre lei già si stava avviando verso l’ingresso di quel palazzo di fine 800, con le colonne sul portone e le finestre alte, tutte circondate da decori preziosi.
Nel tornare indietro a prenderla, quasi inciampò avendo infilato il tacco nella fuga del marciapiede. La sua educazione le impedì di proferire alcuna imprecazione in pubblico.
Le diede fastidio il tocco del taxista che, gentilmente, si avvicinò per sorreggerla.
Odiava essere toccata da estranei.
Le dava fastidio qualsiasi contatto, eppure stava entrando in quel palazzo per essere venduta ad estranei quale schiava, persone che avrebbe dovuto servire e soddisfare, senza alcuna possibilità di scelta sul proprio Padrone.
Sentiva su di sé la luce fredda dell’occhio di bue che, sul palco, la illuminava.
Era nuda, esposta ad un numero indeterminato di persone che la guardavano, bramavano di averla a loro disposizione per soddisfare qualsiasi desiderio.
Era bendata, resa inespressiva al pubblico, per toglierle qualsiasi aspetto umano e renderla solo un corpo che avrebbe obbedito ad ogni ordine.
Questo la eccitava terribilmente.
Si sentiva tremare dentro in quella sala riempita da persone che provavano eccitazione fortissima all’idea di acquistare un altro essere umano.
Non si era accorta di essersi spostata. Se ne rese conto solo quando l’imbonitore le diede uno strattone al guinzaglio per fermare quel ridicolo tentativo di ripensamento.
Era troppo tardi, aveva firmato il contratto, la liberatoria.
La firma.
Quella circostanza l’aveva eccitata quando, nuda dopo che i vestiti leggeri le erano stati strappati di dosso, era stata costretta ad inginocchiarsi davanti al tavolino basso.
Sul pavimento aveva notato alcuni sassolini che le stavano promettendo dolore nel momento in cui sarebbe stata costretta a mettere per iscritto la propria cessione che l’avrebbe condotta dove si trovava in quell’istante, sul palco, esposta alla vendita.
Non riusciva a staccare gli occhi da quella minaccia e non seppe dire quanto tempo era passato, come se il tempo si fosse fermato nel momento in cui si era tolta il suo Rolex per riporlo nella cassetta.
La riserva di carica di 70 ore le avrebbe fatto ritrovare l’orologio ancora funzionante quando fosse tornata per riprenderlo.
La mano sui capelli aveva rimesso il tempo in movimento facendole abbassare le ginocchia sui sassolini. Solo quando la mano fu tolta dalla sua testa si rese conto che l’aveva condotta sul dolore mentre, bagnata, provava eccitazione nel firmare la propria cessione, la propria condanna alla schiavitù.
La sua attenzione fu strappata dal flash di ricordo della firma, ed era lì, in piedi davanti a persone sconosciute e invisibili, delle quali le sembrava di sentire rimbombare nelle orecchie i loro respiri eccitati che, a loro volta, eccitavano lei.
L’imbonitore stava parlando con parole che non capiva, come fossero di un’altra lingua e che le si sommavano in testa, disordinatamente, per terminare nella parte del corpo destinata al piacere, a produrle quella sensazione allo stomaco e alla figa.
Aveva solo sentito le parole “bella bionda”, “ubbidiente”, “figa stretta”, “zerbino”, “cagna”, “frusta”, catene”.
Ecco, quelle parole sì, quelle le aveva capite e le si erano scolpite dentro, in profondità.
Venne fatta girare.
Solo allora si ricordò della frustata che le avevano dato quando, inginocchiata davanti al tavolino, aveva appena apposto la sua firma sulla liberatoria.
Non se l’era aspettata. Era stata forte, decisa, improvvisa. Si era sentita la schiena bruciare e la propria voce uscire strozzata dalla gola riarsa per la tensione.
Fu costretta a restare a terra quando la scarpa del futuro imbonitore le era stata calata sulla testa per tenerla giù, a ricordarle che da quel momento non era più niente, solo un corpo, un oggetto, una fonte di piacere e divertimento per persone sconosciute.
Si sentì ridicolmente nuda nel pensare che il suo marchio di schiavitù in quel momento era visibile a tutti, quale promessa di ciò che avrebbero potuto fare di lei, forti del potere dato dall’acquisto.
Il vortice di pensieri fu fermato quando l’imbonitore la fece girare e, messa a 4 zampe, la trascinò tra quelle mani che avrebbero voluto palparla, toccarla, mentre si muoveva docile e sensuale tra i tavoli occupati da persone che ancora non poteva vedere.
Lei stessa cercava di ancheggiare, rendersi piacevole ed eccitante.
Voleva alzare il suo prezzo, sapere quanto fosse il suo valore. Più l’offerta sarebbe stata alta, più si sarebbe sentita un oggetto, di lusso ma un oggetto, un giocattolo prezioso.
L’imbonitore volle far sentire ai presenti il suo urlo di dolore quando, tornata in piedi sul palco, le torse fortemente il capezzolo, per eccitare maggiormente la sala e dare un anticipo di piacere.
Lo schiaffo le fece ondeggiare i lunghi capelli spettinati e diede il via alle offerte.
di
scritto il
2023-11-01
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