La schiava ereditata dalla madre (parte 2)
di
Kugher
genere
sadomaso
Estrasse il foglio ed iniziò a leggere la grafia decisa e curata.
Visse un momento particolare, come se si fosse isolato, come se quelle parole scritte ordinatamente gli rivelassero nuovi mondi, sicuramente nuovo quello che stava apprendendo di sua madre.
Inizialmente restò allibito, poi fu risucchiato dallo scritto e, quando terminò, era eccitato.
Il piacere aveva iniziato a circolare nel suo basso ventre senza che lui se ne accorgesse. Se fosse stato interrogato non avrebbe saputo dire in quale momento il cazzo aveva iniziato a diventare duro.
Dopo le prime parole aveva guardato la ragazza davanti a lui con altri occhi e lì si rese conto che già aveva dimenticato il suo nome.
Sua madre sapeva usare benissimo il computer, eppure su quel foglio c’era la sua calligrafia. Lì dentro c’era una parte della sua anima e a quelle parole ordinate e precise aveva affidato il compito di raccontargli di sé stessa, delle cose più segrete, intime, riservate.
Chissà cosa aveva pensato nel scriverle, se aveva immaginato i pensieri del figlio. Sicuramente non leggeva alcun imbarazzo. Era come se gli stesse parlando a voce invece che a mezzo scritto, serenamente.
Gli raccontò, così, che da sempre aveva avuto pulsioni dominanti che aveva condiviso con il marito, suo padre.
Avevano sempre avuto schiavi e schiave, trovati in rete o nei locali della cui frequentazione lui non solo ignorava, ma nemmeno avrebbe pensato che i suoi genitori avrebbero potuto frequentare.
Quando ancora conviveva con loro ed il padre era vivo, incontravano schiavi o schiave in case prese in affitto o, eventualmente, nelle abitazioni di questi.
Quando lui si era allontanato da casa conquistando la sua autonomia, avevano iniziato ad ospitarli nella loro casa che, una volta, era una fattoria risistemata e adattata ad abitazione, non di lusso, ma molto decorosa.
Aveva così capito perchè avessero voluto mantenere le stalle o le cantine ruvide, piene di quegli anelli di ferro infissi nel muro che un tempo legavano animali e, da loro, utilizzati per incatenare le schiave o gli schiavi.
Quando lui era all’estero e non rischiava di capitare per caso, li ospitavano per più giorni, trattandoli come animali.
Sua madre si stava mettendo a nudo con gran serenità, come se finalmente avesse potuto svelare quella parte segreta di lei e di suo marito e che aveva coltivato anche dopo la sua morte.
Maria era la sua ultima schiava.
L’aveva presa poco dopo che si era iscritta all’università. Aveva avuto qualche esperienza di sottomissione ma mai soddisfacente. Aveva trovato uomini o donne che la volevano solo scopare senza troppe attenzioni.
In sua madre, invece, aveva trovato dominio, nel quale l’aspetto sessuale era solo una parte ma non l’elemento fondamentale.
Era una ragazza che, specularmente a lei, traeva piacere in quel senso di svuotamento dei pensieri e dell’anima nel momento in cui era schiava, come se quella bolla vissuta agli ordini altrui fosse una specie di reset, nel quale poteva non pensare e scaricare tutte le sue tensioni.
Nella sua eredità, quella che non poteva essere indicata nella dichiarazione di successione, quella dell’anima, quella in cui una madre si confessa raccontando al figlio una parte di lei che, evidentemente, era fortissima ma che aveva tenuto riservata, ecco, in quella eredità era compresa Maria
Gliela lasciava come schiava.
A lui la scelta se tenerla e servirsene, o rifiutarla, lasciando che cercasse altro Padrone o Padrona.
Alla ragazza non interessava che fosse uomo o donna. A lei interessava la forza dominante.
Era questo un monito, gli assegnava una persona che avrebbe potuto trattare come un oggetto, un animale, ma del quale avrebbe dovuto, seppure come Padrone, averne cura, conoscerla, guardarla, apprezzarla e, solo dopo, schiacciarla.
Maria, in quanto proprietà della sua (ex) Padrona, eseguiva così il suo ultimo ordine accettando di essere ceduta al figlio, quale pezzo dell’eredità, senza discutere, come un oggetto.
Luigi ebbe l’idea che la madre non avesse nemmeno consultato la ragazza ma, semplicemente, avesse vergato quel foglio per lasciargliela, magari mentre la schiava, nel frattempo, le stava leccando i piedi o era incatenata da qualche parte.
La madre non scrisse nulla dei possibili usi della schiava, soffermandosi sul concetto di proprietà e di appartenenza, di esigenze della parte segreta di ciascuno di noi, in questa forma in un’altra.
Luigi, dopo il primo sbigottimento, si sentì il cazzo indurire. Ebbe la completa erezione quando, finalmente, alzò lo sguardo e lo posò sulla giovane donna, anzi, schiava, in piedi davanti a lui, in attesa.
Non era più la ragazza che poco prima aveva bussato alla sua porta.
Maria, la schiava, rappresentava una parte di sua madre, un mondo nel quale non era mai stato e, adesso, era una cosa sua.
Solo in quel momento si accorse che ciò che aveva in mano la ragazza era qualcosa di più di una borsetta che, all’inizio, gli era sembrata stravagante.
In realtà era una pochette in pelle, molto curata, nera, elegante e, si vedeva, di ottima fattura.
La ragazza aveva atteso che lui terminasse la lettura e ne elaborasse il contenuto. Aveva aspettato che alzasse su di lei gli occhi per leggerne lo sguardo.
Quando avvenne, in esso si vide riflessa, si vide per un attimo con gli occhi di lui e non pensò a sé stessa come una persona libera ma come una schiava davanti al suo Proprietario.
Gli consegnò la pochette.
Luigi era ancora seduto quando la prese e, al suo interno, scoprì un collare di pelle nera ed un guinzaglio di catena che da una parte aveva un moschettone e dall’altra un manico della stessa pelle del collare.
Due oggetti complementari, belli, curati.
Li studiò.
Il cazzo era durissimo.
Alzò nuovamente gli occhi sulla sua proprietà.
“Spogliati e inginocchiati”.
Visse un momento particolare, come se si fosse isolato, come se quelle parole scritte ordinatamente gli rivelassero nuovi mondi, sicuramente nuovo quello che stava apprendendo di sua madre.
Inizialmente restò allibito, poi fu risucchiato dallo scritto e, quando terminò, era eccitato.
Il piacere aveva iniziato a circolare nel suo basso ventre senza che lui se ne accorgesse. Se fosse stato interrogato non avrebbe saputo dire in quale momento il cazzo aveva iniziato a diventare duro.
Dopo le prime parole aveva guardato la ragazza davanti a lui con altri occhi e lì si rese conto che già aveva dimenticato il suo nome.
Sua madre sapeva usare benissimo il computer, eppure su quel foglio c’era la sua calligrafia. Lì dentro c’era una parte della sua anima e a quelle parole ordinate e precise aveva affidato il compito di raccontargli di sé stessa, delle cose più segrete, intime, riservate.
Chissà cosa aveva pensato nel scriverle, se aveva immaginato i pensieri del figlio. Sicuramente non leggeva alcun imbarazzo. Era come se gli stesse parlando a voce invece che a mezzo scritto, serenamente.
Gli raccontò, così, che da sempre aveva avuto pulsioni dominanti che aveva condiviso con il marito, suo padre.
Avevano sempre avuto schiavi e schiave, trovati in rete o nei locali della cui frequentazione lui non solo ignorava, ma nemmeno avrebbe pensato che i suoi genitori avrebbero potuto frequentare.
Quando ancora conviveva con loro ed il padre era vivo, incontravano schiavi o schiave in case prese in affitto o, eventualmente, nelle abitazioni di questi.
Quando lui si era allontanato da casa conquistando la sua autonomia, avevano iniziato ad ospitarli nella loro casa che, una volta, era una fattoria risistemata e adattata ad abitazione, non di lusso, ma molto decorosa.
Aveva così capito perchè avessero voluto mantenere le stalle o le cantine ruvide, piene di quegli anelli di ferro infissi nel muro che un tempo legavano animali e, da loro, utilizzati per incatenare le schiave o gli schiavi.
Quando lui era all’estero e non rischiava di capitare per caso, li ospitavano per più giorni, trattandoli come animali.
Sua madre si stava mettendo a nudo con gran serenità, come se finalmente avesse potuto svelare quella parte segreta di lei e di suo marito e che aveva coltivato anche dopo la sua morte.
Maria era la sua ultima schiava.
L’aveva presa poco dopo che si era iscritta all’università. Aveva avuto qualche esperienza di sottomissione ma mai soddisfacente. Aveva trovato uomini o donne che la volevano solo scopare senza troppe attenzioni.
In sua madre, invece, aveva trovato dominio, nel quale l’aspetto sessuale era solo una parte ma non l’elemento fondamentale.
Era una ragazza che, specularmente a lei, traeva piacere in quel senso di svuotamento dei pensieri e dell’anima nel momento in cui era schiava, come se quella bolla vissuta agli ordini altrui fosse una specie di reset, nel quale poteva non pensare e scaricare tutte le sue tensioni.
Nella sua eredità, quella che non poteva essere indicata nella dichiarazione di successione, quella dell’anima, quella in cui una madre si confessa raccontando al figlio una parte di lei che, evidentemente, era fortissima ma che aveva tenuto riservata, ecco, in quella eredità era compresa Maria
Gliela lasciava come schiava.
A lui la scelta se tenerla e servirsene, o rifiutarla, lasciando che cercasse altro Padrone o Padrona.
Alla ragazza non interessava che fosse uomo o donna. A lei interessava la forza dominante.
Era questo un monito, gli assegnava una persona che avrebbe potuto trattare come un oggetto, un animale, ma del quale avrebbe dovuto, seppure come Padrone, averne cura, conoscerla, guardarla, apprezzarla e, solo dopo, schiacciarla.
Maria, in quanto proprietà della sua (ex) Padrona, eseguiva così il suo ultimo ordine accettando di essere ceduta al figlio, quale pezzo dell’eredità, senza discutere, come un oggetto.
Luigi ebbe l’idea che la madre non avesse nemmeno consultato la ragazza ma, semplicemente, avesse vergato quel foglio per lasciargliela, magari mentre la schiava, nel frattempo, le stava leccando i piedi o era incatenata da qualche parte.
La madre non scrisse nulla dei possibili usi della schiava, soffermandosi sul concetto di proprietà e di appartenenza, di esigenze della parte segreta di ciascuno di noi, in questa forma in un’altra.
Luigi, dopo il primo sbigottimento, si sentì il cazzo indurire. Ebbe la completa erezione quando, finalmente, alzò lo sguardo e lo posò sulla giovane donna, anzi, schiava, in piedi davanti a lui, in attesa.
Non era più la ragazza che poco prima aveva bussato alla sua porta.
Maria, la schiava, rappresentava una parte di sua madre, un mondo nel quale non era mai stato e, adesso, era una cosa sua.
Solo in quel momento si accorse che ciò che aveva in mano la ragazza era qualcosa di più di una borsetta che, all’inizio, gli era sembrata stravagante.
In realtà era una pochette in pelle, molto curata, nera, elegante e, si vedeva, di ottima fattura.
La ragazza aveva atteso che lui terminasse la lettura e ne elaborasse il contenuto. Aveva aspettato che alzasse su di lei gli occhi per leggerne lo sguardo.
Quando avvenne, in esso si vide riflessa, si vide per un attimo con gli occhi di lui e non pensò a sé stessa come una persona libera ma come una schiava davanti al suo Proprietario.
Gli consegnò la pochette.
Luigi era ancora seduto quando la prese e, al suo interno, scoprì un collare di pelle nera ed un guinzaglio di catena che da una parte aveva un moschettone e dall’altra un manico della stessa pelle del collare.
Due oggetti complementari, belli, curati.
Li studiò.
Il cazzo era durissimo.
Alzò nuovamente gli occhi sulla sua proprietà.
“Spogliati e inginocchiati”.
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La schiava ereditata dalla madre (parte 3)
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