Schiava dei suoceri (parte 10)
di
Kugher
genere
sadomaso
Irene dovette attendere ancora a lungo la fine della cena, quel pasto che a lei parve interminabile, tra libagioni altrui e sofferenza propria, duplice sofferenza, nell’anima e nel corpo ancora segnato.
Dopo l’ultimo boccone, il Padrone l’aveva allontanata dal suo cazzo con un calcio.
A quattro zampe l’aveva fatta mettere al centro della sala, davanti alla poltrona sulla quale si era seduta Luisa, quasi dovesse assistere ad uno spettacolo.
Il piede del suocero, posato sul suo collo, le spinse il capo a terra, lasciandola col culo alto ed esposto.
L’uomo armeggiò coi pantaloni.
Si abbassò la cerniera per potere fare uscire tutta la sua eccitazione con la quale penetrò il culo della schiava prostrata davanti alla suocera, offrendo il suo corpo e la sua umiliazione.
Il Padrone le uscì dal culo e la penetrò in figa.
Non la stava scopando, ma la stava montando, facendola sentire una cagna.
La Padrona allungò il piede e le pose una scarpa sul capo mentre il marito stava godendo dentro al figa della nuora.
“Puliscimi”.
Irene fece più in fretta che poté per girarsi e prendere in bocca il cazzo ancora bagnato dai suoi umori e pulirlo meglio che poteva.
Mentre stava facendo il suo lavoro di pulizia, sentì la voce sarcastica della suocera.
“Puttana, non sei nemmeno capace di tenere lo sperma dentro. Stai grondando come una vacca. Lecca il pavimento e puliscilo bene”.
Irene aveva ancora la lingua a terra, intenta a pulire sperma e granelli di polvere.
La voce sarcastica della Padrona la perseguitava.
“Finché saremo vivi questa sarà la tua vita, cagna”.
Il disprezzo nella voce del suocero non era stato mitigato dall’orgasmo appena avuto.
“Te la devi sudare l’eredità di nostro figlio, puttana”.
Non perdevano mai l’occasione di condire ogni frase con insulti e denigrazioni.
Tutte parole che le si accumulavano dentro, mai assorbite o metabolizzate, come fossero mattoncini che si accumulavano l’uno sull’altro.
Aveva dentro una mattonata forte, solida, che schiacciava dentro di lei le sensazioni, cambiandole, mutandole, trasformandole.
Quando venne convocata quindici giorni dopo con l’ordine di presentarsi nuda sotto il soprabito che avrebbe dovuto essere corto, quelle sensazioni restarono ben confinate dietro al solido muro di mattoncini, ognuno dei quali ricordava una serata, o una parola, o una frustata, o un insulto.
Non ebbe emozioni quando, arrivata, trovò la porta aperta, cosa solita per agevolare il suo ingresso.
In casa c’era più silenzio del solito.
Solo poco dopo iniziò a udire un lamento proveniente dalla cucina. La scena alla quale si trovò davanti le fermò il cuore per un attimo.
A terra trovò i suoceri legati e mal ridotti, sanguinanti.
La casa era abbastanza in ordine. Evidentemente i rapinatori li avevano torturati per farsi dire dove i gioielli ed i soldi erano nascosti.
Non erano topi di appartamenti. Non erano interessati a televisori.
Volevano oro, argento, soldi, diamanti.
Irene tenne le emozioni confinate dietro a quel muro di mattoni mentre i suoceri, legati e sofferenti, la supplicavano di chiamare soccorsi, con la voce flebile di chi è giunto allo stremo delle sue forze.
Chissà da quanto tempo erano in quelle condizioni.
Lei era stata convocata con un sms alla mattina.
Era passato tutto il giorno.
Spostò una sedia dal tavolo, quella sulla quale il suocero aveva cenato mentre lei gli succhiava quel cazzo che sembrava volesse esplodere tanto era duro.
Si sedette con calma e accavallò le gambe in maniera sensuale, scoprendole ulteriormente oltre a quanto il soprabito corto già non stesse rivelando.
Li guardava gemere nel loro sangue, sorridendo.
Spostò la sedia e si avvicinò al suocero. Allargò le gambe per far vedere che aveva eseguito l’ordine e sotto era completamente nuda.
“Chiama i soccorsi, puttana”.
Nemmeno in quella situazione il suocero aveva rinunciato ad aggiungere un mattoncino dentro l’anima della nuora, che restò ferma sulla sedia, con le cosce aperte, sorridente.
“Ti prego”.
La preghiera finta ebbe il solo effetto di gettare del colore allegro sui mattoncini ben saldi dentro di lei.
Si godette la loro sofferenza a lungo, provando vendetta e rivalsa nei loro lamenti.
Il sangue a terra era tanto.
Quando se ne andò il loro respiro era corto. Voleva che se ne andassero nella solitudine.
Appena superata la soglia di ingresso per dirigersi all’auto, le vennero in mente le parole pronunciate dai suoceri durante il loro ultimo incontro:
“Finché saremo vivi questa sarà la tua vita, cagna”.
“Te la devi sudare l’eredità di nostro figlio, puttana”.
Dopo l’ultimo boccone, il Padrone l’aveva allontanata dal suo cazzo con un calcio.
A quattro zampe l’aveva fatta mettere al centro della sala, davanti alla poltrona sulla quale si era seduta Luisa, quasi dovesse assistere ad uno spettacolo.
Il piede del suocero, posato sul suo collo, le spinse il capo a terra, lasciandola col culo alto ed esposto.
L’uomo armeggiò coi pantaloni.
Si abbassò la cerniera per potere fare uscire tutta la sua eccitazione con la quale penetrò il culo della schiava prostrata davanti alla suocera, offrendo il suo corpo e la sua umiliazione.
Il Padrone le uscì dal culo e la penetrò in figa.
Non la stava scopando, ma la stava montando, facendola sentire una cagna.
La Padrona allungò il piede e le pose una scarpa sul capo mentre il marito stava godendo dentro al figa della nuora.
“Puliscimi”.
Irene fece più in fretta che poté per girarsi e prendere in bocca il cazzo ancora bagnato dai suoi umori e pulirlo meglio che poteva.
Mentre stava facendo il suo lavoro di pulizia, sentì la voce sarcastica della suocera.
“Puttana, non sei nemmeno capace di tenere lo sperma dentro. Stai grondando come una vacca. Lecca il pavimento e puliscilo bene”.
Irene aveva ancora la lingua a terra, intenta a pulire sperma e granelli di polvere.
La voce sarcastica della Padrona la perseguitava.
“Finché saremo vivi questa sarà la tua vita, cagna”.
Il disprezzo nella voce del suocero non era stato mitigato dall’orgasmo appena avuto.
“Te la devi sudare l’eredità di nostro figlio, puttana”.
Non perdevano mai l’occasione di condire ogni frase con insulti e denigrazioni.
Tutte parole che le si accumulavano dentro, mai assorbite o metabolizzate, come fossero mattoncini che si accumulavano l’uno sull’altro.
Aveva dentro una mattonata forte, solida, che schiacciava dentro di lei le sensazioni, cambiandole, mutandole, trasformandole.
Quando venne convocata quindici giorni dopo con l’ordine di presentarsi nuda sotto il soprabito che avrebbe dovuto essere corto, quelle sensazioni restarono ben confinate dietro al solido muro di mattoncini, ognuno dei quali ricordava una serata, o una parola, o una frustata, o un insulto.
Non ebbe emozioni quando, arrivata, trovò la porta aperta, cosa solita per agevolare il suo ingresso.
In casa c’era più silenzio del solito.
Solo poco dopo iniziò a udire un lamento proveniente dalla cucina. La scena alla quale si trovò davanti le fermò il cuore per un attimo.
A terra trovò i suoceri legati e mal ridotti, sanguinanti.
La casa era abbastanza in ordine. Evidentemente i rapinatori li avevano torturati per farsi dire dove i gioielli ed i soldi erano nascosti.
Non erano topi di appartamenti. Non erano interessati a televisori.
Volevano oro, argento, soldi, diamanti.
Irene tenne le emozioni confinate dietro a quel muro di mattoni mentre i suoceri, legati e sofferenti, la supplicavano di chiamare soccorsi, con la voce flebile di chi è giunto allo stremo delle sue forze.
Chissà da quanto tempo erano in quelle condizioni.
Lei era stata convocata con un sms alla mattina.
Era passato tutto il giorno.
Spostò una sedia dal tavolo, quella sulla quale il suocero aveva cenato mentre lei gli succhiava quel cazzo che sembrava volesse esplodere tanto era duro.
Si sedette con calma e accavallò le gambe in maniera sensuale, scoprendole ulteriormente oltre a quanto il soprabito corto già non stesse rivelando.
Li guardava gemere nel loro sangue, sorridendo.
Spostò la sedia e si avvicinò al suocero. Allargò le gambe per far vedere che aveva eseguito l’ordine e sotto era completamente nuda.
“Chiama i soccorsi, puttana”.
Nemmeno in quella situazione il suocero aveva rinunciato ad aggiungere un mattoncino dentro l’anima della nuora, che restò ferma sulla sedia, con le cosce aperte, sorridente.
“Ti prego”.
La preghiera finta ebbe il solo effetto di gettare del colore allegro sui mattoncini ben saldi dentro di lei.
Si godette la loro sofferenza a lungo, provando vendetta e rivalsa nei loro lamenti.
Il sangue a terra era tanto.
Quando se ne andò il loro respiro era corto. Voleva che se ne andassero nella solitudine.
Appena superata la soglia di ingresso per dirigersi all’auto, le vennero in mente le parole pronunciate dai suoceri durante il loro ultimo incontro:
“Finché saremo vivi questa sarà la tua vita, cagna”.
“Te la devi sudare l’eredità di nostro figlio, puttana”.
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