Ridotta in schiavitù, venduta (parte 2)
di
Kugher
genere
sadomaso
Nel cassone del camion trovò altre 7 persone tra schiavi e schiave, tutte nude.
L’estremità del suo guinzaglio venne incatenata ad un anello nella parete dopo essere stata fatta inginocchiare, in malo modo.
Cercò gli occhi di quegli uomini e quelle donne ma non li trovò, tutti abbassati e impauriti. Erano diverse anche le età ed Angélique si interrogò sulla loro destinazione, oltre che sulla propria.
Nel camion, appoggiato alla parete che divideva dalla cabina di guida, c’era un cassoncino in metallo che, probabilmente, serviva per ritirare gli attrezzi. Per sopperire alla scomodità, la guardia che era deputata al controllo della merce, vi aveva fatto stendere di schiena la ragazza più grassa del gruppo.
Ci stava giusto la schiena, così aveva la testa penzoloni e i piedi poggiati a terra.
L’uomo, non più giovane, era seduto sul morbido ventre della donna e osservò Angélique distrattamente quando Gérard la fece salire e la incatenò all’anello. Solitamente sarebbe toccata a lui quell’operazione, dopo avere preso in carico la schiava.
Sapeva però che Gérard amava incatenare quelle che aveva appena usato per godere.
Sorrise pensando all’uso appena fatto della bella giovane, prese l’elenco e spuntò il nome di quella nuova schiava. Poi ritornò ad immergersi nella lettura del giornale, comodamente seduto sulla donna.
Di questa Angélique osservò il viso sofferente a contrasto con la tranquillità dell’uomo seduto. Quella donna, in quel momento, era solo un cuscino per la comodità di altri. Si interrogò sulla sua destinazione e sul suo utilizzo, ben conscia che anche lei sarebbe stata un mero oggetto.
La mente le tornò a qualche tempo addietro, ormai una vita fa, quando lei ed i suoi genitori erano ancora benestanti. Anche la sua famiglia aveva acquistato una schiava, Maria. Nessuno di loro si era mai fatto problemi ad usarla per i propri comodi, vedendola come una cosa di proprietà, esattamente come era in uso nelle case dei Signori, delle sue amiche che, anch’esse, avevano la schiavitù.
Lei stessa faceva stendere Maria in quella medesima posizione sullo sgabello davanti al pianoforte. Si sedeva su di lei per i suoi esercizi senza pensare o considerare il dolore della schiava che, più o meno, avrà avuto la sua età.
Solo in quel momento si rese conto di non ricordarsi l’età di Maria. Forse non l’aveva mai saputa, non interessandole questa informazione.
Si ricordava solo che le piaceva starle seduta sopra, la trovava comoda ed eccitante. Spesso, alla fine degli esercizi, anche per scaricare la tensione che accumulava nello studio, le ordinava di leccarle la figa mettendosi cavalcioni sul suo petto.
In famiglia non le lesinavano le frustate quando non eseguiva bene gli ordini o anche solo per divertimento.
A suo padre piaceva picchiarla col frustino mentre la scopava, lo sentiva dalla sua camera e le piaceva immaginare l’atto.
A quei tempi era cosa assolutamente normale per lei e per i suoi genitori non considerare Maria come una cosa diversa da una schiava, come se non avesse mai avuto una vita prima di appartenere a loro.
La sua famiglia l’aveva comprata di prima mano. Solo coloro che non avevano grandi disponibilità economiche acquistavano schiave di seconda mano e, nell’ambiente dei Signori, questi acquisti definiti “poveri” erano visti con sufficienza.
Adesso sarebbe toccato a lei essere una schiava “di prima mano” non considerata come una persona ma solo come una cosa.
I pensieri viaggiavano velocemente e gli scossoni del camion continuavano a ricordarle che la sua vita di prima era finita.
Non si era accorta che questi pensieri, della cui durata non aveva fatto caso, avendo perso la cognizione del tempo tra i mille battiti del suo cuore spaventato, le avevano bloccato lo sguardo, seppur perso nel vuoto, sulla guardia seduta sulla schiava.
Se ne accorse, quasi ridestandosi, quando vide l’uomo alzarsi e, avvicinatosi a lei, darle un colpo secco di frustino.
“Abbassa lo sguardo, schiava. Impara a non guardare i Padroni”.
Tutti pretendevano che gli schiavi tenessero lo sguardo basso. Forse per godere della loro umiliazione, forse per evitare di incrociare il loro sguardo di persone che avrebbe potuto farli guardare nella loro coscienza.
Prima di obbedire, non poté non osservare lo sguardo di sollievo del sedile umano per avere avuto modo di respirare un poco nel tempo in cui la guarda si era alzata da lei.
Realizzò che il colpo di frustino, che l’aveva segnata ulteriormente nell’anima prima ancora che sulla pelle, era stato un beneficio per la schiava sedile, la quale ebbe modo di riprendersi un poco.
Sicuramente quella ragazza sperava che altri o altre prendessero altre frustate, così da recuperare un po’ di energia.
Irragionevolmente sentì di odiarla. Non pensò al fatto che avrebbe dovuto avere quel sentimento verso la guardia. Lo diresse invece verso il sedile umano, che era nelle sue stesse condizioni o, anzi, in quel momento stava decisamente peggio di lei.
La mente era confusa, presa nel vortice degli accadimenti e non registrò questa assurdità ma, anzi, la portò a concentrarsi meglio sul sedile, sperando che soffrisse ancor di più, quasi nella speranza che il suo dolore riuscisse a compensare il proprio che, in quel momento, era nell’anima.
Provò piacere nel pensare che quella schiava sarebbe probabilmente stata destinata ai lavori pesanti, a differenza di lei che, forse, avrebbe dovuto soddisfare i piaceri dei Padroni, conscia della propria bellezza.
Lo sguardo di Angélique si era spostato ai suoi stessi piedi che, benché scalzi, erano più puliti delle ginocchia e delle mani.
La guardia si alzò ancora un paio di volte per frustare qualcuna che si stava lamentando e per prendere in consegna altre due schiave e tre schiavi fatti salire sul camion.
Non usò nessuna per soddisfare le proprie esigenze sessuali. Sicuramente vi aveva già provveduto prima che lei salisse e, così, usava il sedile umano solo per comodità e non per piacere.
Sapeva benissimo che la gente libera chiamava quei camion “carri bestiame”. Anche lei li aveva definiti così, pensando, eccitata, agli schiavi e alle schiave all’interno, fantasticando sui loro usi.
Quel viaggio in camion venne vissuto come un momento sospeso, un traghetto tra il passato fatto di libertà ed il futuro di schiavitù. Un tempo che lei stessa non seppe quantificare se non in emozioni e turbamenti, tutti molto forti che le scuotevano le viscere, ben sapendo che l’ignoto spaventa più di ciò che è noto.
Non avrebbe saputo dire quanto lungo fosse stato, quanti i chilometri percorsi e quante le soste per far salire altri condannati alla schiavitù.
Ogni fermata era fonte di ansia, non sapendo se sarebbe salita gente o scesa lei.
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krugher.1863@gmail.com
L’estremità del suo guinzaglio venne incatenata ad un anello nella parete dopo essere stata fatta inginocchiare, in malo modo.
Cercò gli occhi di quegli uomini e quelle donne ma non li trovò, tutti abbassati e impauriti. Erano diverse anche le età ed Angélique si interrogò sulla loro destinazione, oltre che sulla propria.
Nel camion, appoggiato alla parete che divideva dalla cabina di guida, c’era un cassoncino in metallo che, probabilmente, serviva per ritirare gli attrezzi. Per sopperire alla scomodità, la guardia che era deputata al controllo della merce, vi aveva fatto stendere di schiena la ragazza più grassa del gruppo.
Ci stava giusto la schiena, così aveva la testa penzoloni e i piedi poggiati a terra.
L’uomo, non più giovane, era seduto sul morbido ventre della donna e osservò Angélique distrattamente quando Gérard la fece salire e la incatenò all’anello. Solitamente sarebbe toccata a lui quell’operazione, dopo avere preso in carico la schiava.
Sapeva però che Gérard amava incatenare quelle che aveva appena usato per godere.
Sorrise pensando all’uso appena fatto della bella giovane, prese l’elenco e spuntò il nome di quella nuova schiava. Poi ritornò ad immergersi nella lettura del giornale, comodamente seduto sulla donna.
Di questa Angélique osservò il viso sofferente a contrasto con la tranquillità dell’uomo seduto. Quella donna, in quel momento, era solo un cuscino per la comodità di altri. Si interrogò sulla sua destinazione e sul suo utilizzo, ben conscia che anche lei sarebbe stata un mero oggetto.
La mente le tornò a qualche tempo addietro, ormai una vita fa, quando lei ed i suoi genitori erano ancora benestanti. Anche la sua famiglia aveva acquistato una schiava, Maria. Nessuno di loro si era mai fatto problemi ad usarla per i propri comodi, vedendola come una cosa di proprietà, esattamente come era in uso nelle case dei Signori, delle sue amiche che, anch’esse, avevano la schiavitù.
Lei stessa faceva stendere Maria in quella medesima posizione sullo sgabello davanti al pianoforte. Si sedeva su di lei per i suoi esercizi senza pensare o considerare il dolore della schiava che, più o meno, avrà avuto la sua età.
Solo in quel momento si rese conto di non ricordarsi l’età di Maria. Forse non l’aveva mai saputa, non interessandole questa informazione.
Si ricordava solo che le piaceva starle seduta sopra, la trovava comoda ed eccitante. Spesso, alla fine degli esercizi, anche per scaricare la tensione che accumulava nello studio, le ordinava di leccarle la figa mettendosi cavalcioni sul suo petto.
In famiglia non le lesinavano le frustate quando non eseguiva bene gli ordini o anche solo per divertimento.
A suo padre piaceva picchiarla col frustino mentre la scopava, lo sentiva dalla sua camera e le piaceva immaginare l’atto.
A quei tempi era cosa assolutamente normale per lei e per i suoi genitori non considerare Maria come una cosa diversa da una schiava, come se non avesse mai avuto una vita prima di appartenere a loro.
La sua famiglia l’aveva comprata di prima mano. Solo coloro che non avevano grandi disponibilità economiche acquistavano schiave di seconda mano e, nell’ambiente dei Signori, questi acquisti definiti “poveri” erano visti con sufficienza.
Adesso sarebbe toccato a lei essere una schiava “di prima mano” non considerata come una persona ma solo come una cosa.
I pensieri viaggiavano velocemente e gli scossoni del camion continuavano a ricordarle che la sua vita di prima era finita.
Non si era accorta che questi pensieri, della cui durata non aveva fatto caso, avendo perso la cognizione del tempo tra i mille battiti del suo cuore spaventato, le avevano bloccato lo sguardo, seppur perso nel vuoto, sulla guardia seduta sulla schiava.
Se ne accorse, quasi ridestandosi, quando vide l’uomo alzarsi e, avvicinatosi a lei, darle un colpo secco di frustino.
“Abbassa lo sguardo, schiava. Impara a non guardare i Padroni”.
Tutti pretendevano che gli schiavi tenessero lo sguardo basso. Forse per godere della loro umiliazione, forse per evitare di incrociare il loro sguardo di persone che avrebbe potuto farli guardare nella loro coscienza.
Prima di obbedire, non poté non osservare lo sguardo di sollievo del sedile umano per avere avuto modo di respirare un poco nel tempo in cui la guarda si era alzata da lei.
Realizzò che il colpo di frustino, che l’aveva segnata ulteriormente nell’anima prima ancora che sulla pelle, era stato un beneficio per la schiava sedile, la quale ebbe modo di riprendersi un poco.
Sicuramente quella ragazza sperava che altri o altre prendessero altre frustate, così da recuperare un po’ di energia.
Irragionevolmente sentì di odiarla. Non pensò al fatto che avrebbe dovuto avere quel sentimento verso la guardia. Lo diresse invece verso il sedile umano, che era nelle sue stesse condizioni o, anzi, in quel momento stava decisamente peggio di lei.
La mente era confusa, presa nel vortice degli accadimenti e non registrò questa assurdità ma, anzi, la portò a concentrarsi meglio sul sedile, sperando che soffrisse ancor di più, quasi nella speranza che il suo dolore riuscisse a compensare il proprio che, in quel momento, era nell’anima.
Provò piacere nel pensare che quella schiava sarebbe probabilmente stata destinata ai lavori pesanti, a differenza di lei che, forse, avrebbe dovuto soddisfare i piaceri dei Padroni, conscia della propria bellezza.
Lo sguardo di Angélique si era spostato ai suoi stessi piedi che, benché scalzi, erano più puliti delle ginocchia e delle mani.
La guardia si alzò ancora un paio di volte per frustare qualcuna che si stava lamentando e per prendere in consegna altre due schiave e tre schiavi fatti salire sul camion.
Non usò nessuna per soddisfare le proprie esigenze sessuali. Sicuramente vi aveva già provveduto prima che lei salisse e, così, usava il sedile umano solo per comodità e non per piacere.
Sapeva benissimo che la gente libera chiamava quei camion “carri bestiame”. Anche lei li aveva definiti così, pensando, eccitata, agli schiavi e alle schiave all’interno, fantasticando sui loro usi.
Quel viaggio in camion venne vissuto come un momento sospeso, un traghetto tra il passato fatto di libertà ed il futuro di schiavitù. Un tempo che lei stessa non seppe quantificare se non in emozioni e turbamenti, tutti molto forti che le scuotevano le viscere, ben sapendo che l’ignoto spaventa più di ciò che è noto.
Non avrebbe saputo dire quanto lungo fosse stato, quanti i chilometri percorsi e quante le soste per far salire altri condannati alla schiavitù.
Ogni fermata era fonte di ansia, non sapendo se sarebbe salita gente o scesa lei.
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